Fiorenzo Radogna per corriere.it
MAIELLO ZOLA
«C’era il Sada, il vecchio stadio del Monza, dove noi ragazzini delle giovanili ci allenavamo. Sentivamo le voci dal carcere vicino, in via Mentana. Io non ci badavo. Pensavo solo a giocare bene: ero una mezzapunta alle soglie della Primavera. Qualche volta mi ero già allenato con la prima squadra di Alfredo Magni. Quella di Buriani e Tosetto.
Nella Primavera c’erano Monelli e Massaro. L’anno prima il Monza aveva sfiorato la serie A, perdendo lo spareggio col Pescara. Ero una promessa e non avrei mai immaginato che in quel carcere, pochi anni dopo, ci sarei finito». Le parole di Fabrizio Maiello (classe 1963 da Cesano Maderno) sono veloci. Come i ricordi che sembrano esplodere, ma poi si ordinano e si cadenzano.
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Come uno dei suoi interminabili palleggi. Gli stessi che — in serie di migliaia, camminando avanti o all’indietro, con palloni, palline da tennis, limoni, arance — gli hanno permesso di diventare un «fenomeno». «In carcere mi chiamavano “Maradona”. Mi piaceva, sono napoletano di origine e tifoso del Napoli. Il calcio lì mi ha protetto».
Quando il sogno era già finito nel solco di una vita sbagliata fra rapine, sparatorie, fughe, arresti e galera. Tanta galera. «Non ho mai ucciso nessuno. Sono stato fortunato, entravo per rapinare, pistola in una mano, santino in un’altra e pensavo: spero che nessuno si ferisca. Quanti errori nella mia vita».
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A partire da quell’episodio sul campo. «In un contrasto durante un’amichevole, cado e il piede mi si gira sotto il corpo. Avevo 17 anni: all’ospedale mi dicono che con il calcio avrei chiuso. Se non mi operavo, sarei rimasto zoppo. Mi alzo e fuggo; con il piede giallo e gonfio. A casa, mio padre vuole farmi operare ad ogni costo. Io non voglio, se non posso più giocare, non m’importa di nulla. È l'inizio della fine».
L’hinterland milanese alla fine dei ‘70 è dominato da un sottobosco malavitoso, ci sono le tentazioni di un’esistenza da fuorilegge. «Finché c’era il calcio non m’interessava altro. Poi, con l’infortunio tutto è cambiato. Fra malavita, prigione e latitanze. Durante una di queste, nel 1994, l’idea assurda: il sequestro-lampo di Gianfranco Zola. All’epoca è un idolo, gioca nel Parma. Lo seguiamo un paio di giorni e una sera è lì, sta facendo benzina a un distributore.
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Dico ai miei compagni che non me la sento. Mi avvicino, sorride. Ha il viso pulito di un ragazzo per bene. Chiede: “Vuoi un autografo?”. Mi guarda la mano tatuata coi cinque puntini (simbolo malavitoso, ndr). Capisce, mi sorride, se ne va. Io mi convinco di non farlo, ma devo convincere i miei. Lo seguiamo in macchina, gli suoniamo, vedo il volto ora impaurito, come quello della moglie. Comando io: “Lasciamo stare”. Anni dopo Zola si ricorderà di questo episodio. Gli chiedo scusa, ancora».
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Il tempo passa, Maiello entra ed esce da San Vittore. Poi il ricovero nel manicomio criminale di Reggio Emilia. Lì, lentamente, tutto cambia: «Incontro medici e psichiatri che mi aiutano e comincio a darmi da fare. Come lavoro scelgo di assistere nella mia cella un altro detenuto, Giovanni. È allettato, gli hanno dato pochi mesi di vita per varie patologie. Mi organizzo, mi dedico solo a lui.
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E al calcio: palleggio in continuazione, con qualsiasi sfera. Media e giornali parlano di me, stabilisco record, compio imprese... La più bella? Giovanni sopravvive ed esce dopo cinque anni. Ormai ne sono passati più di dieci da quando ho finito anch’io di scontare ogni pena. Ho pagato tutto. Oggi lavoro come giardiniere per una cooperativa a Reggio Emilia, ho una compagna e palleggio. Sempre. Anche nelle scuole dove mi chiamano a raccontare la mia storia...»
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