C. Man. per "il Messaggero"
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Erano rimaste bloccate in Afghanistan dopo l'attentato dell'Isis, avvenuto il 26 agosto scorso all'aeroporto di Kabul. Ora le calciatrici della nazionale giovanile afghana sono riuscite a trovare rifugio in Pakistan, insieme con i familiari. Il governo di Islamabad ha concesso loro i visti per motivi umanitari, dopo la caduta del paese nelle mani dei talebani.
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Le atlete avrebbero dovuto inizialmente raggiungere il Qatar, dove già si trovano migliaia di rifugiati, ospitati in uno degli impianti realizzati per la Coppa del Mondo di calcio del prossimo anno, ma erano rimaste bloccate per dei problemi con i passaporti e, alla fine, l'attentato terroristico ha fermato tutto. L'altra parte della squadra, in maggior numero, era, invece, riuscita a partire l'ultima settimana di agosto dopo un accordo con il governo australiano.
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Da allora le giovani calciatrici (che hanno tra i 14 e i 18 anni) non hanno avuto vita facile, si sono dovute nascondere per sfuggire ai nuovi padroni dell'Afghanistan che hanno subito detto chiaramente di non immaginare delle donne nello sport, perché troppo visibili e con il corpo troppo esposto alla vista dell'uomo. Per far raggiungere il confine si sono adoperate le organizzazioni umanitarie.
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Le 32 sportive sono arrivate in Pakistan - per un totale di 115 persone, comprese le loro famiglie - grazie all'aiuto della ong britannica Football for Peace in collaborazione con il governo e la Federazione calcistica pakistana Ashfaq Hussain Shah, non riconosciuta dalla Fifa. La squadra di calcio femminile ha raggiunto Islamabad tramite il valico di frontiera di Torkham. E la notizia è stata resa ufficiale dal ministro dell'Informazione pakistano, Fawad Chaudhry, sul suo profilo Twitter.
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Le calciatrici, ha precisato il ministro, «erano in possesso del passaporto afghano e di un visto per entrare in Pakistan». Il quotidiano locale Dawn ha poi riferito che il governo ha emesso visti umanitari d'emergenza a beneficio delle atlete e dei loro familiari. Un gesto simbolico ha accompagnato il momento dell'attraversamento del confine: le ragazze hanno potuto togliersi il burqa, sostituendolo con un velo islamico. A Lahore hanno poi ricevuto il benvenuto del ministro Chaudhry. La loro meta finale sarà, comunque, il Qatar.
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LA STORIA
Era andata meglio alle ragazze della squadra di calcio di Herat, che già a fine agosto sono riuscite a scappare in Italia. Il loro viaggio è stato raccontato dal regista Stefano Liberti che le ha aiutate ad arrivare a Roma. L'Herat Football Club è una squadra di calcio femminile nata nel 2014. Da quando i talebani hanno preso il potere nel Paese, le calciatrici hanno smesso di essere al sicuro e hanno cercato di scappare in ogni modo.
STEFANO LIBERTI
Già nel 2017, Liberti aveva raccontato la storia delle giovani atlete in un docufilm. E si è occupato direttamente del loro viaggio verso una vita nuova. Ora il gruppo di sportive è pronto a ricominciare. La Divisione calcio a 5, dopo aver letto la loro storia e il loro desiderio di poter continuare nello sport, si è mossa offrendo supporto economico e logistico per le calciatrici.
«Abbiamo già avuto la disponibilità di diverse società - ha spiegato nei giorni scorsi il presidente della divisione, Luca Bergamini -. Il nostro progetto è farle partecipare al campionato, ma anche dare loro tutto il sostegno economico e logistico per l'integrazione nel territorio a cui verranno destinate».
faiz hameed te
LA TAZZA DI TÈ E IL RUOLO DEL PAKISTAN
Andrea Nicastro per il "Corriere della Sera"
Persi nella nebbia delle faide tra talebani del Sud e talebani dell'Est? Confusi dalle shure (Consigli) di Doha, di Quetta, di Mashad o di Paktiya? Due particolari possono aiutare, uno è minuscolo, l'altro gigantesco. Sono una tazza di tè, ma c'è di sostiene fosse caffè, e l'intreccio etnico che disegna il subcontinente indiano. Il tè (o caffè), nero, zuccherato, è quello che il capo dei servizi segreti pachistani, generale Faiz Hameed, solleva il 5 settembre a Kabul circondato come una star da stuoli di talebani.
faiz hameed
Lo 007 emana fiducia in se stesso. Ne ha tutte le ragioni. È il vincitore morale della guerra. I suoi protetti talebani hanno cacciato la Coalizione internazionale. Il generale ha fatto tutto benissimo, tranne farsi fotografare con la tazzina in mano perché, il giorno dopo, scendono in piazza in tutto l'Afghanistan tajiki, hazara, uzbeki, turkmeni. Accusano i pashtun talebani di aver svenduto il Paese al pachistano, anzi, richiamando l'etnia dello 007, al «punjabi».
caos al confine con il pakistan
Quando poi emergono i nomi nel nuovo governo talebano, il sospetto si fa certezza: il generale venuto dal Pakistan ha imposto la lista, marginalizzato i pashtun del Sud e premiato quelli dell'Est, da sempre vicini all'uomo con il tè (o il caffè) in mano. Quella foto e quel governo sono brucianti offese anche per il nucleo originario del movimento fondato dal mullah Omar.
L'arroganza del punjabi e l'orgoglio dei pashtun cocciano: il rumore è di talebani feriti da altri talebani. I pashtun talebani dell'Est (network Haqqani) sono quasi organici al Pakistan: dalla guerra del Kashmir nel 1947, a quella del Bangladesh nel 1971, alla repressione dei Sindh negli anni '80 sono stati spesso utilizzati per il lavoro sporco dei punjabi. I pashtun del Sud (ex mullah Omar) no. Sono solo alleati tattici. O, meglio, se il conflitto talebano esploderà, dovremo dire che «erano» alleati tattici.