1 - LA CHAT DEGLI 80 MASCHI CHE IRRIDEVA LE COLLEGHE
Estratto dell’articolo di Ilaria Carra per “la Repubblica”
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Voti e giudizi sull’aspetto fisico. Commenti sessisti, «quella è una f...», battute da caserma, classifiche su Excel, foto in costume da bagno prese dal profilo social della neoassunta e condivise. Con annessi riferimenti sessuali. Sono i contenuti di una chat via Skype tra i dipendenti della nota società di comunicazione We are social, ribattezzata con sdegno social «la chat degli 80».
Conversazioni partite da attività tipo il calcetto poi degenerate su altri fronti, a cui partecipavano tutti uomini, dipendenti, di vari settori della società. Messaggi che stanno invadendo in questi giorni i social attirando polemiche e condanne.
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La chat venne scoperta dai vertici aziendali nel 2017 e subito chiusa. Ma sono conversazioni tornate di grande attualità ora che il tema delle molestie nel mondo pubblicitario sta emergendo trainato dalle tante testimonianze di donne decise a raccontare le violenze psicologiche e il mobbing subito negli anni.
A lanciare il sasso, due settimane fa, era stato il pubblicitario Massimo Guastini, già presidente dell’Art directors club italiano. In un’intervista via social a Monica Rossi, pseudonimo dietro il quale ci sarebbe un professionista ben inserito nel panorama della comunicazione, aveva denunciato molestie e attaccato frontalmente un nome forte di questo mondo, P. D., ideatore di tante campagne fortunate, accusandolo di essere «un molestatore seriale» di donne.
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E facendo riferimento a una chat molto spinta tra i dipendenti di una nota agenzia di comunicazione, che in poco tempo si è rivelata essere We Are Social. A quel punto molte ragazze sono uscite allo scoperto denunciando via social un malcostume generalizzato che sarebbe diffuso nel mondo della comunicazione e delle agenzie. Sia un clima pesante che ha spinto molti al burn out […] ma anche «un clima di terrore» contro chi ha provato a denunciare atteggiamenti sessisti. […]
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We are social ha diffuso una nota ufficiale in cui «condanna da sempre qualsiasi forma di discriminazione e atteggiamenti inappropriati. We are social è da sempre impegnata nel creare un ambiente di lavoro sano e inclusivo. La società nel corso degli anni ha messo in atto numerose iniziative con partner qualificati affinché il benessere e la tutela delle persone siano al primo posto».
2 - IL #METOO DELLA COMUNICAZIONE
Estratto dell’articolo di Valentina Petrini per “la Stampa”
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«Glielo infilerei così tanto nel c..o da farle uscire le palle dalla gola». «È talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la scoperei comunque, di prepotenza». Immaginate una chat aziendale, di una famosa e potente agenzia di pubblicità, in cui 80 uomini, dai capi a scendere, selezionano stagiste e collaboratrici con testi e considerazioni così.
Linda Codognesi è la donna che il 28 gennaio 2020, in un podcast dal titolo Freegida, realizzato con la sua amica Penny, denuncia per la prima volta l'esistenza di questa chat. […] Linda scopre tutto durante una cena, in cui un suo collega cede alle loro domande insistenti e mostra i messaggi. «Esisteva anche un file excel in cui catalogavano le collaboratrici in base a forme, culo, seno, misure». Dopo aver letto quei messaggi violenti, Linda si chiude in se stessa: «Quando entravo in ufficio mi sentivo un pezzo di carne osservato».
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La chat sessista non è un caso isolato. Sta emergendo come uno tsunami che insulti a sfondo sessuale, avance esplicite e volgari, sono molestie diffuse nel settore. Fino alle accuse più gravi: tentativi pressanti di ottenere favori sessuali. Sotto accusa alcuni nomi delle più importanti agenzie creative italiane. Un mondo dove a ricoprire incarichi di potere sono ancora in maggioranza uomini.
Gli stessi che curano per aziende e brand vari le campagne pubblicitarie di sensibilizzazione su temi sociali importanti come la parità di genere e i diritti. Le ragazze stanno uscendo allo scoperto. Tania Loschi da giorni denuncia dal suo profilo Instagram ciò che ha subito. «Puttana, chissà quanti po….ni hai fatto per essere qui» si è sentita urlare contro.
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Tania accetta di raccontarsi dopo essersi fidata finora solo di se stessa e dei suoi social […] «Ho ricevuto tra Instagram e Linkedin più di 400 storie analoghe alla mia. Mi ha sorpreso ricevere la fiducia di tante persone ma non sono stupita. Mi hanno scritto anche uomini, ammettendo che sapevano ed erano dispiaciuti di non aver fatto nulla. Idem ragazzi discriminati per il loro orientamento sessuale».
Tania oggi è una freelance, ha aperto una partita iva proprio per allontanarsi da quegli ambienti tossici che l'hanno devastata. Racconta: «Colloquio di lavoro: mi ricevono due direttori creativi. Iniziano a chiedermi insistentemente: cosa saresti disposta a fare per l'agenzia? E io: "Gli straordinari non pagati", "fermarmi ad oltranza se c'è da chiudere un progetto", "lavorare nel weekend". Niente. Ridevano, scuotevano la testa.
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Avevo capito che c'era allusione sessuale nella loro domanda, ma non sapevo cosa fare: e se mi stavo sbagliando?». Non si sbagliava invece. Alla fine lo ammettono apertamente: «Vabbè, non hai colto!». Da lì Tania è scappata. Ma nell'altra agenzia in cui finisce non va meglio. «Un altro anno tossico, violento. Le urla, l'aggressione verso me e altri dipendenti, erano la normalità». La conversazione a questo punto si interrompe. Sento che piange. Poi prosegue: «Dopo che il mio capo mi ha chiamato davanti a tutti "Puttana" ho scritto all'amministratore delegato, una donna. E lei sai che disse? "Dai lo sai come è fatto, ora lo chiamo e fate pace". Ovviamente mi rifiutai».
È in questo clima che la molestia sessuale ha trovato terreno fertile. «I capi passavano tra le nostre scrivanie e sussurravano cose tipo "se ti mostro il mio pene ti innamori". Mi metteva le mani sulle spalle e massaggiava. Se un giorno indossavo una maglia più carina o un rossetto, mi diceva: "Non ti lamentare se ti metto le mani addosso"». Aveva quasi 30 anni, è scappata anche da lì. «Sono stata molto male. Avevo attacchi di panico. Non gestivo lo stress. È stato traumatico». […]
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3 - IL ME TOO DELLA PUBBLICITÀ “ERO UNA STAGISTA MI ASSALÌ IN AUTO”
Estratto dell’articolo di Ilaria Carra per “la Repubblica”
«È una storia che ha condizionato la mia vita. E per la quale tuttora sono in psicoterapia. [...] Da allora salgo in auto solo con persone che conosco da sempre, che sono due o tre e faccio fatica a fidarmi».
Giulia Segalla oggi ha 33 anni. Ne aveva 20, nel 2011, quando era una stagista nel mondo della pubblicità e ha denunciato, ai tempi in forma anonima, di aver subito molestie da parte di un noto pubblicitario, ideatore di campagne molto riuscite [...]. Oggi [...] ha deciso di metterci la faccia «e di raccontare tutta la verità con nome e cognome».
Giulia, cosa successe allora?
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«Ero una stagista, da poco arrivata a Milano. Una sera decisi di partecipare a un evento di lavoro […]. Questa persona mi contattò per farmi sapere che ci sarebbe stato anche lui, era molto affermato in un ambiente in cui io mi stavo inserendo. Alla fine dell’evento si offrì di accompagnarmi a casa, io mi ero già organizzata con i mezzi ma lui ha insistito. E io ho accettato, pensando di potermi fidare di un uomo di 50 anni che poteva essere mio padre».
Che cosa accadde?
«Mentre eravamo in auto a un certo punto si è fermato in una zona isolata, io non avevo capito. In un attimo me lo sono trovato addosso, ha tentato diversi approcci sessuali. Io ho subito detto di no, che non ero interessata. Ma ero in trappola, sono stata per ore in auto: o uscivo fuori in mezzo ai campi, al buio, o restavo in auto cercando di resistere alle sue avances prendendolo per sfinimento. Ho scelto la seconda strada, per istinto di sopravvivenza. Dopo ore è ripartito e mi ha riaccompagnata verso casa».
[...] Ne ha parlato con qualcuno?
«L’ho detto subito al mio capo di allora (il pubblicitario Massimo Guastini, ndr ) che è stato l’unico a darmi una mano e a starmi vicino negli anni. È stato lui a prendere la situazione in mano, a denunciare sui social la questione, senza fare il mio nome per proteggermi. Tutti nell’ambiente ne parlavano, anche con un certo sdegno».
[…] Cosa fece dopo?
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«Ho retto un anno, poi il peso di questa situazione mi ha portato a […] cambiare città. Avevo paura di trovarmelo dappertutto. […] Quest’anno sono stata invitata a un evento in cui sapevo ci sarebbe potuto essere anche lui, e solo l’idea di doverlo incontrare mi fa stare male».
Come mai allora non denunciò alle autorità?
«Me lo chiedono in tanti. Ma come tante altre ragazze con cui mi sono confrontata poi avevo paura di essere esclusa dal contesto professionale, di essere messa alla gogna, di ritorsioni. Mi muovevo in un contesto malsano di cui solo ora stanno emergendo i contorni. E il contesto socioculturale attorno a me non mi ha supportata. Anche se tuttora continuo ad avere paura, so che devo dire tutta la verità». [...]
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