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Emanuela Griglié per “La Stampa”
Sembrava che i millennial (i nati tra il 1980 e il 1995) fossero i peggiori consumatori di sempre e avrebbero rovinato un sacco di cose: niente più vino, addio matrimonio, motociclette, case di proprietà, lettere e buste, vacanze in hotel. E sembravano pure intransigenti nel non investire in flaconi di ammorbidente, fazzoletti e diamanti (vabbè).
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Ma poi è arrivata la generazione Z a farli quasi rimpiangere, almeno secondo il report di BofA Global Research "OK Zoomer", che ha indagato i consumi dei nati tra il 1996 e il 2016. Stilando un altro elenco di oggetti che, causa annichilamento della domanda, rischiano di finire fuori produzione (insieme ai fax, le mappe cartacee, le calcolatrici, le sveglie, le radio: rimpiazzati dallo smartphone).
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Intanto i ragazzi delle Gen Z avrebbero valori precisi che li guiderebbero negli acquisti, seppure con qualche stridente contraddizione. Per esempio, affermano di preoccuparsi assai dell'impatto ambientale dei prodotti ma poi sono quelli che comprano fast fashion (la moda più inquinante che c'è), soprattutto a uso social, dove è fondamentale fotografarsi con varietà di abiti e accessori.
Secondo varie ricerche, più o meno scientifiche, gli under 30 non sono interessati ad avere: automobili (meglio la mobilità in sharing), rasoi, alcol, accessori per il golf inteso come sport (dal 2008, 5 milioni di giocatori in meno). Oltretutto odiano visceralmente gli skinny jeans, quelli super attillati, amatissimi dai loro fratelli maggiori, e pure i campanelli delle porte, definiti «strani e spaventosi» in un sondaggio su Twitter del Guardian.
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«Non comprerei mai una cravatta o una televisione», dice Simone Berlini, milanese, 22 anni, influencer del collettivo Defhouse che, con 40 milioni di follower, funge da osservatorio privilegiato sulle nuove generazioni. «Invece sì scarpe, componenti per la moto, esperienze culinarie». Emily Pallini, romana di 19 anni, anche lei TikToker della Defhouse, investe in «prodotti per la cura del corpo, borse e accessori. Sono attenta agli sprechi e i vestiti anziché buttarli li regalo. Nel mondo make up e skin care compro solo prodotti non testati sugli animali. No agli ombretti colorati».
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Ma ora che sul mercato si affacciano anche gli Alfa, i nati dal 2010 in poi, lo scenario si complica. Ancora troppo giovani per essere abbordati frontalmente dal marketing, hanno in compenso genitori molto indirizzati e che stanno un sacco di tempo su Instagram a postare fotogenici bebè.
«C'è un sottogruppo di mamme millennial che investe nei migliori prodotti che può permettersi per i figli», ha spiegato Heather Dretsch, professoressa di marketing alla North Carolina State University. «Con la conseguenza che la prossima generazione avrà gusti molto simili a quelli dei genitori millennial, a differenza della Gen Z». Forse amanti di un'estetica minimalista e dai colori pastello, gli Alfa saranno comunque i primi a muoversi in un mondo di marchi digital first, e nel digitale probabilmente si immergeranno anche a fare acquisti.
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Almeno così scommette Mark Zuckerberg con il suo Metaverso, dove da questa settimana si possono comprare abiti per avatar firmati da Balenciaga, Prada e Thom Browne. Ma al di là degli elenchi più o meno incrostati di stereotipi con prodotti in via di estinzione, il cambiamento nelle abitudini di acquisto a cui stiamo assistendo è intenso. Anche perché non va trascurato che i millennial sono la prima generazione dal 19° secolo a stare peggio dei loro genitori, una disgrazia che probabilmente la Gen Z e la Gen Alfa erediteranno.
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«Un trasformazione nella modalità del consumo c'è e riguarda soprattutto i 16-24enni», ci spiega Stefano Micelli, docente di business alla Ca' Foscari. «Qualcosa di profondo sta accadendo in alcuni settori, in particolare nella moda, dove vediamo un atteggiamento radicalmente diverso collegato al tema, molto sentito, della sostenibilità.
Così se la mia generazione il vintage non l'avrebbe mai considerato, oggi per un ventenne è più che normale. Andiamo verso un mondo in cui prevarranno tre tendenze di consumo: il lusso, lo sharing e l'upcycling, ovvero prendo cose che già esistono e le rifaccio. L'ultimo è sicuramente il trend più interessante».
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Le parole d'ordine sono refitting e upcycling, ovvero l'utilizzo delle nuove tecnologie per dare una seconda vita agli oggetti. «Processo che passa attraverso una nuova artigianalità, più urbana e tecnologica, in grado di impiegare strumenti tradizionali ma aggiornati alla contemporaneità e che riguarda settori diversissimi, dai mobili alle biciclette.
«Un esempio che mi piace molto è quello di William Amor a Parigi, un vero virtuoso, che fa fiori bellissimi con sacchetti della spesa riciclati, lui è un po' la star di questo artigianato a base di materiali poverissimi», aggiunge il professore, che coordina il progetto upskill40, proprio per aiutare gli artigiani a riposizionarsi nel futuro.
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«Sono esperimenti che iniziamo a vedere in questi anni e che incrociano un mercato che è quello dei più giovani. La sensazione è che il settore del riuso avrà bisogno di nuovi business model, ma è anche evidente che è quello più in grado di intercettare il favore di generazioni che hanno un'estetica diversa e disponibilità economiche più ridotte delle precedenti».
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