Estratto dell'articolo di Silvia M. C. Senette per www.corriere.it
sara pedri scomparsa
«Tateo sapeva benissimo del disagio di mia sorella. La telefonata in cui Sara, in malattia per stress da lavoro, chiedeva del suo futuro è stata la sua condanna». Emanuela Pedri è la sorella di Sara, la ginecologa 32enne di Forlì scomparsa in Val di Non il 4 marzo 2021 dopo «mesi di incubo» per i quali l’allora primario di Ginecologia all’Ospedale Santa Chiara di Trento deve rispondere di maltrattamenti e abusi di mezzi di correzione. Venerdì, nell’udienza a porte chiuse, Saverio Tateo si è commosso: «Non sapevo del suo disagio — ha dichiarato —. Mi disse che non si trovava bene e le risposi di farsi forza, che avremmo potuto aiutarla, trasferirla». Una versione a cui Emanuela Pedri non crede.
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«Lacrime finte, dichiarazioni studiate a tavolino con i due legali. Nelle parole di Tateo vedo delirio di onnipotenza: conosceva benissimo il disagio di mia sorella».
Perché ne è certa?
«Sara ci chiamava tre volte al giorno, raccontava tutto. Incontrandola in corridoio, ormai piegata dai soprusi, le disse: “Se non ti riprendi non mi servi a nulla”. Da medico capiva cosa stava accadendo. Sara era genuina, autentica, quindi più esposta e attaccabile da parte di persone dispotiche con il potere di farlo. E non era la prima a crollare nel reparto».
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Parla delle 21 donne che si sono costituite parte offesa?
«Ventuno che si espongono in un solo reparto sono tantissime, ma ci sono un centinaio di testimonianze. Mia sorella si è spenta in tre mesi nell’omertà generale. Non poteva essere salvata da nessuno lì dentro, dove era tutto normale, una gara alla sopravvivenza tra donne che vivevano lo stesso calvario di Sara. Nell’incubo impari a starci: è la tristezza più grande».
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In famiglia cosa avevate colto?
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«Per noi era folle. Non puoi pensare che tua figlia o tua sorella sia in pericolo in un luogo professionale, medico tra i medici, ed esca morta da un reparto di in cui nasce la vita. L’abbiamo costretta a tornare a casa. Sara non voleva, si vergognava di farsi vedere così, ma la diagnosi era chiara: stress da lavoro. Poi si è accorta di non essere nei turni delle settimane successive: temendo di essere licenziata, ha chiamato Tateo. Ho assistito alla telefonata: la sentivo sussurrare, fragile. È stata la sua condanna. Si incolpava per quello che subiva: “Hanno ragione, non so fare niente, non sono adeguata”».
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