Patrizia Floder Reitter per “la Verità”
le spice girls con la t shirt iwannabeaspicegirl
Le magliette per la parità di genere vendute dalle Spice Girls sarebbero prodotte sulla pelle di operaie del Bangladesh. L' inchiesta del quotidiano inglese The Guardian rivela condizioni disumane nella fabbrica da dove escono le t-shirt promosse dalla celebre band britannica, la cui ultima esibizione come gruppo risale al 2012 (durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra) e che a giugno tornerà a cantare insieme.
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Dopo l' annuncio dei concerti che partiranno a giugno, già tutti esauriti, Geri Halliwell, Emma Bunton, Melanie Brown e Melanie Chisholm (la quinta girl, Victoria Adams in Beckham non salirà sul palco perché troppo impegnata), lo scorso novembre avevano lanciato una collezione di magliette con la scritta #IWannabeaSpicegirl, voglio proprio essere una spice girl. Un' operazione definita umanitaria, per ogni maglietta venduta online a 19 sterline, buona parte del ricavato (circa 12 sterline) finiranno all' organizzazione no profit Comic Relief impegnata a promuovere l' uguaglianza per le donne.
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Peccato che la lotta alle disparità sul posto di lavoro si faccia solo sotto i riflettori e non nei Paesi poveri, accusa The Guardian, documentando come le operaie guadagnino l' equivalente di 40 centesimi l' ora per lavorare anche 16 ore al giorno.
Nella fabbrica di Interstoff Apparels a Gazipur, distante circa tre ore di auto dalla capitale Dacca, le donne che producono i capi indossati e promossi sui social da noti cantanti e presentatori non sorriderebbero, come fanno i testimonial di #IWannabeaSpicegirl.
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Pagate una miseria, l' equivalente di 93 euro al mese, discriminate rispetto ai colleghi maschi e spesso offese, maltrattate, giovani bangladesi cucirebbero ogni giorno migliaia di capi per Shahriar Alam, ministro degli esteri del Bangladesh, comproprietario e cofondatore di Interstoff. Alam fa affari con diversi rivenditori britannici, secondo il quotidiano britannico nel 2013-14 ha realizzato un utile di 2,5 milioni di sterline.
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Dominique Muller, responsabile della politica del gruppo di lavoro laburista, al quotidiano inglese ha commentato: «È indispensabile che celebrità, enti di beneficenza e marchi garantiscano che i loro prodotti sono realizzati in fabbriche che pagano un salario decente e forniscono un lavoro dignitoso».
il principe harry con le spice girls
Muller ha puntato il dito anche contro Stanley Stella, l' azienda belga che ha fatto realizzare le magliette delle Spice. Il noto marchio non controllerebbe le condizioni di lavoro nelle fabbriche in Bangladesh. The Guardian racconta storie di donne con problemi di salute costrette a turni massacranti, anche se incinte.
la t shirt iwannabeaspicegirl
«Inorridite» da quanto hanno appreso dalla carta stampata, le quattro pop star che nella loro carriera hanno venduto 85 milioni di dischi si dichiarano pronte a finanziare un' indagine, sulle condizioni di lavoro a Gazipur. Intanto, Comic Relief afferma di non aver ricevuto ancora un soldo dalle vendite delle t-shirt.
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L' inchiesta rischia di trasformare in un flop la trovata commerciale di Scary, Sporty, Ginger e Baby (questi i nomi d' arte delle quattro cantanti), riproponendo in chiave «lotta al gender pay gap» Wannabe, che fu il primo singolo estratto da Spice, album del debutto del gruppo britannico datato 1996, sette milioni di copie vendute.
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Il verso chiave recita «voglio davvero, davvero, davvero, davvero zigazig-ha», parola inventata. Non significa nulla, diventò il ritornello del brano simbolo del Girl power, potere alle ragazze. Sul retro delle magliette made in Bangladesh la scritta è «Giustizia di genere». Un altro prezioso messaggio femminista?
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