Estratto dell'articolo di Marco Dell'Aguzzo per www.startmag.it
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Ieri Enel North America, la divisione statunitense del gruppo romano, ha annunciato il sito dove sorgerà la grande fabbrica di celle e pannelli fotovoltaici annunciata mesi fa: a Tulsa Ports, un’area portuale nei pressi della città di Tulsa, nello stato dell’Oklahoma.
L’impianto richiederà un investimento di circa 1 miliardo di dollari e aprirà nel 2025; vi verranno realizzati dispositivi solari bifacciali (più efficienti di quelli tradizionali), come quelli dello stabilimento a Catania, per una capacità produttiva iniziale di 3 gigawatt all’anno.
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La stessa conferma del progetto è in un certo senso una notizia, perché il nuovo amministratore delegato di Enel, Flavio Cattaneo, aveva criticato l’investimento negli Stati Uniti: “E’ un approccio che non condivido”, aveva dichiarato al Foglio mesi fa quando non era stato indicato al governo ai vertici dell’Enel, perché “se si vuole salvaguardare l’interesse nazionale, si dovrebbe produrre in Italia e non altrove”.
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La fabbrica invece si farà, anche perché il mercato nordamericano era considerato il più interessante per gli investitori internazionali di Enel, ma seguendo un processo diverso da quello dell’amministrazione di Francesco Starace.
Come spiega Il Sole 24 Ore, i piani originali prevedevano che la maggioranza del capitale del progetto, una volta sviluppato, venisse ceduta ai privati per ridurre il peso dell’investimento: è peraltro così anche con la fabbrica di Catania, il cui 50 per cento andrà alla società d’investimento NextEnergy Capital. Pare però che adesso Enel – secondo il quotidiano di Confindustria – abbia intenzione di cedere al mercato una quota più grande di quella pensata in origine per lo stabilimento in Oklahoma, forse anche del 70-80 per cento.
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Insomma: l’amministrazione Cattaneo sembra sì voler mantenere una presenza all’estero, ma ridimensionandola per concentrare le risorse sull’Italia.
LE PAROLE DI SCARONI SULLA RUSSIA
In un’intervista a Repubblica, il presidente di Enel Paolo Scaroni (qui tutti i dettagli sul nuovo consiglio di amministrazione) ha cercato di allontanare da sé l’immagine di amico della Russia durante il periodo come amministratore delegato di Eni, dal 2005 al 2014.
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“Se vuole sapere se ero amico di Putin, le rispondo di no”, dichiara al giornalista di Repubblica. “E nemmeno di Miller”, ovvero Aleksej Miller, amministratore delegato della compagnia gasifera statale russa Gazprom. “Erano partner commerciali dell’Italia come lo erano di tutti i principali paesi europei. Pensavo che fossero fornitori affidabili, come lo pensava Angela Merkel e il cancelliere austriaco”.
Di conseguenza, Scaroni ha difeso il rinnovo dei contratti di fornitura tra Eni e Gazprom, che hanno nel tempo portato l’Italia a sviluppare una pesante dipendenza dalla Russia per il gas naturale, con una quota del 40 per cento sul totale delle importazioni.
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“La Russia vende gas all’Europa, e all’Italia, dagli anni Sessanta”, ha detto. “Lo ho approvato [il rinnovo del contratto, ndr], perché era nell’interesse di Eni e perché l’ha condiviso il governo italiano”, cioè con tutti quelli che si sono succeduti durante il suo incarico all’Eni: sono stati guidati da Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti ed Enrico Letta.
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SCARONI STUZZICA LA NATO?
Quando gli viene domandato come siano nati i primi affari sugli idrocarburi con la Russia, Scaroni parla di Enrico Mattei, il fondatore di Eni, che “negli anni ‘50, in piena Guerra fredda, sottoscrisse il primo contratto per l’acquisto di petrolio russo. Negli anni ‘60 cominciarono i primi progetti di esportazione di gas russo verso l’Europa. Fu possibile”, aggiunge il presidente dell’Enel, “perché c’era l’approvazione della NATO”.
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Ha detto anche che la Norvegia, membro della NATO, ha tratto vantaggio dall’aumento dei prezzi del gas in Europa, della quale è diventata una fornitrice molto rilevante a seguito del distacco dalla Russia.
Quanto agli Stati Uniti, che dell’alleanza atlantica sono di fatto il membro principale, Scaroni racconta che “li tenevo al corrente delle operazioni che facevamo in zone politicamente sensibili. Ogni due mesi andavamo a Washington […]. Il tema sensibile in quegli anni poi non era la Russia, ma l’Iran”. Dopo l’imposizione delle sanzioni americane su Teheran per il programma nucleare, nel 2006, “gli Stati Uniti ci invitano a interrompere i rapporti con Teheran. Noi li interrompiamo ma facciamo presente loro che dobbiamo recuperare tre miliardi di dollari per gli investimenti fatti nel paese”.
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