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    FUGA DALLA CINA! - LE RIVOLTE DEI LAVORATORI-SCHIAVI DELLA FOXCONN SI ALLARGANO E LE AZIENDE STRANIERE LASCIANO PECHINO PER SPOSTARSI NEI PAESI DEL SUDEST ASIATICO, CHE ASSICURANO SALARI PIÙ BASSI E CONDIZIONI DI SFRUTTAMENTO PIÙ SERENE - NELL’ULTIMO ANNO ALMENO UN TERZO DELLE IMPRESE MANIFATTURIERE HANNO LEVATO LE TENDE - ANCHE SONY, SAMSUNG E EPSON VOGLIONO DELOCALIZZARE…


     
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    Giampaolo Visetti per "Affari & Finanza - la Repubblica"

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    «Ristrutturazione economica». La definizione è burocratica, ma per la Cina e per il resto del mondo l'annuncio può essere tradotto con un termine più popolare: «Rivoluzione». A Pechino il congresso del partito è alle porte e la nomenclatura si prepara a nominare i leader dei prossimi dieci anni. Propaganda interna e media stranieri sono concentrati sui mutamenti politici. Il potere invece pensa alla spina dorsale della sua stabilità: l'economia. E' stata la molla di trent'anni di crescita straordinaria, capaci di far battere alla Cina ogni primato, di insidiare le strapotere commerciale di Usa e Ue e di garantire la continuità all'egemonia del partito-Stato.

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    Oggi però il modello «made in China» mostra la corda, la crescita rallenta e le sommosse operaie minacciano l'autoritarismo degli eredi di Mao Zedong. Gli slogan del governo sono così tutti centrati sulla necessità di «ristrutturare radicalmente il glorioso edificio costruito da Deng Xiaoping ». Mandare in pensione il profeta comunista dell'«arricchirsi è glorioso», svolta che ha mutato il destino dell'umanità, segna una tappa nuova della storia. Prima di tutto però, significa che Pechino considera finita l'era del made in China. Nulla sarà più come prima e il processo è già silenziosamente in atto.

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    I mercati internazionali lo definiscono «fuga delle imprese dalla Cina» e lanciano l'allarme sul precoce tramonto del Dragone, che a differenza di Giappone e Taiwan potrebbe «diventare vecchio prima di essere diventato ricco ». I leader cinesi lo chiamano invece «cambio di modello economico » e spiegano che solo «una catena della ricchezza totalmente nuova può donare alla Cina un altro ventennio di prosperità».

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    Alle aziende le apparenze interessano meno e un rapporto shock del ministero cinese del Commercio rivela semplicemente che nell'ultimo anno «almeno un terzo delle imprese manifatturiere nazionali sono emigrate in altre regioni del Sud-est asiatico, o stanno seriamente prendendo in considerazione il trasloco».

    Il dopo-Cina è già cominciato. Lo studio indica le due cause essenziali dell'addio: l'aumento dei salari e il calo delle esportazioni, dovuto al crollo dei consumi in Europa, ma pure alimentato da costi che «stanno spingendo la Cina fuori mercato». Le sommosse operaie della Foxconn, che si sono allargate a macchia d'olio ad altre aziende e altre zone del Paese, insomma, non sono state che l'ultimo anello di una catena che ha portato gruppi come Sony, Samsung, Epson e tanti altri, in aggiunta ad alcuni gruppi della stessa Cina, a pensare di delocalizzare altrove le loro fabbriche.

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    Ad abbandonare la «fabbrica del mondo», negli ultimi mesi, le industrie tessili, l'abbigliamento, le produzioni specializzate di scarpe e cappelli, i produttori di pellami, i distretti della ceramica e del legno, tutto il settore casa. Migliaia le aziende chiuse nelle regioni costiere, milioni i posti di lavoro saltati.

    Ad essere investite prima dalla crisi del modello-Cina, le multinazionali e i terzisti rimasti ancorati a lavorazioni tradizionali ad alta densità di lavoro. Proprio la forza-lavoro, il mitico operaio cinese, avevano avviato la storica migrazione di beni, occupazione e ricchezza da Usa-Ue alla Cina. Un'energia esaurita. Il grande esodo industriale, in un primo tempo, è approdato nelle più competitive regioni dell'interno, con le autorità impegnate a favorire «la raccolta dei frutti dai rami più bassi» a colpi di incentivi.

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    Ora però la «lunga marcia» è ripresa e per la prima volta guarda oltreconfine. Le aziende cinesi e quelle straniere delocalizzate fanno rotta su Vietnam, Indonesia, Malesia, Cambogia, Birmania e tutto il Sudest asiatico. Uno studio dell'Accademia delle scienze di Pechino rivela che produrre qui, senza considerare le previsioni di apprezzamento dello yuan, costa già tra il 10 e il 20% in meno e che la fase due della delocalizzazione non preclude l'accesso al mercato cinese. Risparmi moltiplicati dall'opportunità di rinviare la meccanizzazione dell'impresa. «Il processo - dice Lin Xinqi, docente alla Renmin University - è chiaro.

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    La Cina si sposta sull'hi-tech, su produzioni ad alto valore aggiunto e sui servizi. Invade il campo che fu di Giappone e Corea del Sud. Tutto il resto finisce nei Paesi asiatici realmente in via di sviluppo, dove non esistono problemi su lavoro, salari e vincoli ambientali». Pechino è in allarme, considerati gli effetti macroeconomici: in due anni il Pil è crollato del 3% e gli analisti, contrariamente al governo, prevedono «un rallentamento ancora più brusco nel 2013». La nuova leadership definisce invece la «ristrutturazione economica», «fondamentalmente positiva per accrescere il potere della produzione cinese e per favorire un cambio del modello di crescita».

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    Obbiettivo: dal capannone al centro di ricerca, dalla tuta blu al colletto bianco. «La seconda economia mondiale - osserva il rapporto del ministero del Commercio cinese - non può resistere senza creare grandi gruppi globali tecnologicamente all'avanguardia, né senza formare una generazione di lavoratori d'èlite». Non si tratta solo di modernizzare il sistema produttivo ed esportare beni più remunerativi. Pechino, all'alba del nuovo decennio del potere, è costretta a passare dall'export al consumo interno e solo una crescita costante della classe media può allargare quello che si annuncia come il più ricco mercato del pianeta, forte di almeno 500 milioni di «buoni consumatori».

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    La «ristrutturazione economica» della Cina, origine della fuga produttiva in corso, significa questo: smantellare i mega-distretti industriali sorti negli anni Novanta, dove esplodono i conflitti sindacali e gli scandali legati all'inquinamento, e costruire piccoli centri produttivi di ultima generazione, capaci di integrare idee, tecnologia e ricerca. Meno poveri e più benestanti, oltre che ricchi. Il premier uscente Wen Jiabao ha sintetizzato il passaggio epocale sotto l'etichetta «sviluppo sostenibile».

    La sfida dei nuovi leader educati alla scuola di Deng Xiaoping, una volta ridelocalizzate le vecchie industrie occidentali nel resto dell'Asia, è riuscire a riaccendere la crescita interna prima di venire travolti dallo scontento popolare. E ritardare la «fase due dello sviluppo» nei Paesi emergenti, che già stendono tappeti rossi e promettono di essere «più cinesi dei cinesi».

     

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