Cristian Martini Grimaldi per “La Stampa”
studentesse in giappone
La battaglia si è consumata in un’aula del tribunale di Osaka: «Sono stata discriminata per il colore dei miei capelli». Il racconto di una ex studentessa ha svelato una pratica abituale nelle scuole giapponesi: imporre agli alunni la tonalità oltre che l’acconciatura.
La giovane, espulsa di fatto dal suo istituto, nonostante la mediazione dei genitori, è stata risarcita con l’equivalente di tremila dollari, per lo «stress emotivo». Ma i giudici sono stati chiari, non c’è spazio per la fantasia: «La scuola ha tutto il diritto di imporre queste regole». Lo scopo è quello di evitare ribellioni giovanili, anche nell’estetica. Così anche la gradazione del nero diventa decisiva e chi non si adegua è fuori.
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Quasi la metà delle scuole superiori pubbliche di Tokyo richiede agli studenti i cui capelli non sono neri corvino e lisci, di presentare una certificazione ad hoc per dimostrare che siano effettivamente naturali e non tinti o con la permanente, e questo vale anche per i figli di immigrati o di genitori di etnie diverse da quella nativa dell’arcipelago.
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Quando nel 2018 il caso della ragazza di Osaka è arrivato per la prima volta in tribunale, c’è chi addirittura ha avviato una campagna online (“Stop Extreme School Rules”) che ha raccolto 60.000 firme per chiedere al governo di rivedere alcune di queste regole (intimo e calzini bianchi, sopracciglia non curate) le cui ragioni perfino gli stessi studenti faticano a capire.
L’uniformità di gruppo
donne giapponesi con le yukata
Essendo un popolo erede della tradizione confuciana, il concetto di uniformità di gruppo in Giappone (come in diverse altre nazioni asiatiche) non soffre dello stigma di «inibitore dell’individualità» come accade in occidente, ma è visto come uno strumento protettivo, un percorso di «binari fissi» che lubrificano lo scorrimento della vita sociale (gli scettici sono rimandati a sbirciare le statistiche della criminalità giapponese). Per districarsi tra le molteplici sfaccettature dell’esistenza il Sol Levante ha dunque previsto standard diversi rispetto ai nostri, il codice di abbigliamento è uno di questi.
shukatsu
Il salaryman indosserà sempre la sua divisa classica, vestito scuro su camicia bianca. Un kimono richiesto per un'occasione formale non può essere semplicemente rimpiazzato con un paio di jeans, ciò che conta è il rispetto del contesto sociale e non il senso individuale di discomfort.
Questione di abbigliamento
yukata
In estate, uomini e donne indossano una forma casual di kimono chiamato yukata. Le yukata sono presenti anche nei resort termali (ryokan) tanto che tutti gli ospiti di un albergo tradizionale (anche gli stranieri che impazziscono per indossarne una) all’ora di cena si presentano vestiti con la stessa uniforme, diversa per colore per donne e uomini. Quando ragazzi e ragazze si presentano per lo shukatsu (reclutamento di laureandi) lo fanno seguendo manuali di istruzione che hanno imparato a memoria. Il manuale insegna cose per noi occidentali apparentemente sciocche come il rituale dello scambio dei biglietti da visita che ha una propria dinamica specifica. Ma anche la posizione che si sceglie durante un percorso in taxi denota il senso dell’ospitalità e delle buone maniere (la persona con lo status più alto deve sedere sempre direttamente dietro al conducente).
Gerarchia in ascensore
liceo kaifukan osaka
E chi pensa che si possa salire in ascensore distrattamente sbaglia di grosso. Anche qui è lo status di ognuno a stabilire chi entra ed esce per primo. L’albero più alto si spezza sotto il vento (kouboku wa kaze ni oraru) dice un vecchio proverbio giapponese. Insomma chi esce fuori dagli schemi, fosse anche per una meshes o un reggiseno colorato, va subito redarguito.
Ma non per cattiveria, qui esiste la convinzione che sia proprio per il bene del singolo e difficilmente basterà una petizione sul web per cambiare le cose.
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