Laura Anello per “la Stampa”
PESCATORI SEQUESTRATI IN LIBIA 5
La speranza si fa largo di buon mattino tra i vicoli multietnici che profumano di couscous, dilaga tra i pescherecci del porto, esplode a mezzogiorno nell'aula consiliare del Comune, diventata il presidio delle famiglie dei marinai sequestrati. «Liberi, sono liberi», è il tam tam che diventa frenetico tra le madri, i figli, le mogli che aspettano e combattono da tre mesi.
«Liberi, sono liberi», confermano le prime fotografie che arrivano sui telefonini. Le immagini di 18 uomini dimagriti, provati, che fanno il segno di vittoria sul bus che li porta via dalla prigione, sulla banchina della città libica di Bengasi, e poi sui loro pescherecci, i pescherecci che sono casa, lavoro e trincea. «Liberi, sono liberi», ripete adesso Rosetta Ingargiola, che per 108 lunghissimi giorni ha pregato e sperato.
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Tra i prigionieri, laggiù, c'era suo figlio Pietro Marrone, comandante del Medinea, 46 anni, l'unico "uomo di casa" che le è rimasto dopo la morte del marito e quella del figlio Gaspare, inghiottito dal mare forza nove a 23 anni. Era il 1996, quasi un quarto di secolo fa. «Non potevo perdere anche Pietro», dice prima di sciogliersi nell'abbraccio del vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero. «Grazie per quello che ha fatto», gli sussurra. «Il Padreterno ha fatto tutto», le risponde lui con gli occhi che gioiscono sopra la mascherina.
Ma Pietro è vivo, l'ha già chiamata, poche parole per dirle che sta bene, prima di mettersi al lavoro per salpare. Tornerà sulla sua barca, la barca con cui era partito per quella fatidica battuta di pesca, insieme con i compagni dell'altro peschereccio, l'Antartide. È già tardo pomeriggio quando chiama il suo armatore, Marco Marrone: «Grazie a tutta Italia», gli dice. Poche parole, «per il momento non posso dire altro, dobbiamo ricaricare le batterie per avviare i motori».
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Il Medinea è già pronto e messo in moto, come risulta dal Blue Box satellitare di bordo, ma l'Antartide è ancora fermo. Una volta partiti, dovranno fare poco più di quattrocento miglia, due giorni di navigazione, arrivo previsto tra sabato notte e domenica, e ad aspettarli ci saranno i fuochi d'artificio. «Una cosa piccola e simbolica per accoglierli - chiarisce il sindaco Salvatore Quinci - non dobbiamo dimenticare che siamo nel pieno della pandemia». In tempo di Covid anche abbracciarsi è vietato, e quindi sulla banchina del porto nuovo - all'arrivo - saranno ammessi solo i familiari stretti. I marinai dovranno fare il tampone e poi la quarantena.
«Ma l'importante a Natale è stare tutti insieme, noi siamo una famiglia piccola, niente assembramenti», dice Gaetana Giordano, madre di un altro marinaio sequestrato, Giacomo Giacalone, 32 anni e una figlia di un anno e 5 mesi. «Da una settimana non faceva che dire: papà, papà. Ha portato fortuna». È un sospiro di sollievo al femminile. Sollievo di madri, di mogli, di figlie, di sorelle. Donne per cui la solitudine e l'attesa sono consuete compagne di vita. Donne forti come rocce. Donne che mettono in conto tutto. Qui a Mazara c'è gente che è stata sequestrata cinque, sei, sette volte. Gente che ha lo scafo impallinato dalle mitragliatrici.
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Gente che è sfuggita per un soffio al sequestro mentre pescava l'oro di questo mare, il gambero rosso. Gente che ha sempre commentato con sarcasmo gli accordi con la Libia, i trattati di amicizia, le motovedette italiane in regalo, perché la Libia qui è sempre stata la minaccia, il nemico, la prigione. Alcune mogli hanno appreso della liberazione mentre erano a Roma, a protestare. Come Cristina Amabilino, moglie di Bernardo Salvo, tre figli. Adesso aspetta il marito, sceso dal motopesca Natalino, una delle barche che sono riuscite ad allontanarsi al momento dell'agguato. A Mazara c'è il cognato Vito Gancitano: «I libici fanno così, intimano al comandante di salire sulla motovedetta, poi dicono agli equipaggi di seguirli. Ma in questo caso sette pescherecci sono riusciti a scappare, mio cognato è rimasto sequestrato nonostante non fosse il comandante.
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Il comandante, Luciano Gancitano, ha detto che aveva un malore, è andato lui». «Mio marito sta in mare per 35 giorni e torna a casa per 5, così sempre e da sempre - racconta Paola Bigione, moglie di Michele Trinca, il comandante dell'Antartide -. È la nostra vita. Io a vent' anni mi sono sposata, ho cresciuto due figlie da sola, e non mi sono mai lamentata, vengo anche io da una famiglia di pescatori». Le due figlie si chiamano Ilaria e Margherita, e di loro ha chiesto Michele quando è riuscito a comunicare.
«Lo abbiamo chiamato noi a un numero libico, ce l'hanno passato». Poche parole, per dire che sta bene, ma che non è stata una passeggiata: «Siamo stati in prigione, ci hanno tolto le fedi, i telefoni». E lui, che non piange mai, questa volta ha pianto.
ONOFRIO, FABIO, IL DIARIO DELLA GALERA «I GIORNI PIÙ LUNGHI DELLE NOSTRE VITE»
Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera”
michele trinca
«Questi cento e passa giorni in Libia sono stati i più lunghi della mia vita. Non passavano mai. È stato brutto, difficile. Ed è stata una galera...». Comincia e si interrompe così, in un minuto, la prima telefonata di Fabio Giacalone, il direttore di macchina dell'Antartide quando tutti cercano di captare le prime notizie sulla liberazione. Nel salone del municipio di Mazara, da tre mesi bivacco e rifugio dei parenti dei 18 sventurati, è Monica, una ragazza di 15 anni, ad afferrare un telefonino quasi per abbracciare il padre, Onofrio Giacalone, sorridente fra gli altri pescatori che sembrano sereni nella foto postata dal premier Conte. Scattata sulla banchina di Bengasi. Tra le fiancate graffiate dell'Antartide e del Medinea, i pescherecci siciliani sequestrati a colpi di mitraglia.
giovanni bonomo
Drammatico prologo «di questa vera e propria galera» trascorsa a due passi dal nuovo molo, sempre nell'area portuale. «In un edificio che per accesso ha un varco presidiato da uomini armati», ripetono adesso a madri e figli sgomenti. Rimbalza per prima quella foto di Conte a Mazara. Poi arriva un'altra telefonata. E Monica euforica ascolta finalmente la voce del padre, forzatamente rassicurante, come se volesse fare coraggio alla ragazza: «Siamo, liberi. Ci hanno fatto uscire dalla casa e ci hanno portato qui sul ponte dei pescherecci.
Insomma, non siamo più in galera». Nel diario di questi 108 giorni riecheggia più volte la parola galera. E come passavate le giornate? «Pochi contatti con gli addetti alla sorveglianza, nessuno con l'esterno». Per Giacalone un pensiero continuo a quanti lo attendevano a casa. Anche al padre, Pietro, un pescatore pronto a fare i primi calcoli nautici: «Sono circa 410 miglia, diciamo due giorni di navigazione... Sabato notte insieme».
giacomo giacalone
E il figlio ancora lontano gli dice «la cosa più bella». Una frase che pone davvero fine all'incubo: «Ora lasciatemi in pace che devo accendere i motori». Scatta però un'emergenza, come apprendono da Mazara i due armatori, Leonardo Gangitano e Marco Marrone. Un imprevisto a quest' ultimo comunicato dal suo comandante Pietro Marrone, 44 anni, stesso cognome: «Batterie da ricaricare dopo 3 mesi. Ma se parte il primo ci agganciamo e salpiamo comunque insieme. Non possiamo certo restare qui dopo questo tempo in cui ogni giorno mille angosce mi venivano anche per mia madre...».
onofrio giacalone
Poi nella notte i motori si accendono, i pescherecci sono pronti a partire. E riesce da quelle 410 miglia a farla sorridere la mamma, Rosetta Ingargiola, 74 anni, la nonnina rimasta per settimane all'addiaccio in una tenda davanti a Montecitorio per protestare, per accendere i riflettori. Suo figlio, grato: «Il pensiero andava a lei rimasta vedova e senza mio fratello, annegato a 24 anni in mare per una tempesta». Sono le tragedie di questo mondo della pesca che nel giorno più felice di Mazara offre l'esempio di una comunità integrata. Come si percepisce dalla solidarietà fra mamme e figli di siciliani, tunisini, senegalesi, confusi fra chador e mascherine, uniti nei balli etnici che esplodono a sera, mentre le batterie sono ancora sotto carica.
C'è Islem Ben Haddata che con il suo perfetto italiano scongiura il padre tunisino: «Basta con il mare. Avevo il terrore che non tornasse più». Come Insaf, la giovane figlia di Jemmali Farat, il secondo motorista del Medinea. O di Chaima, la primogenita di un altro pescatore berbero, Habib Mathlouthi. Tutte pronte a confortare Marika Calandrino, la più giovane delle mogli al megafono per tre mesi, grandi occhi azzurri, in lacrime quando sente il marito Giacomo Giacalone, 32 anni.
pietro marrone
Ma importante è che echeggi la voce da Bengasi, «da quell'inferno», come lo ha chiamato per 108 giorni Cristina Amabilino, la moglie di un altro marittimo, Bernardo Salvo, pronto a tranquillizzare con un flash dal telefonino libico: «Siamo usciti dalla galera...». Sorride finalmente anche il figlio, dieci anni appena, che su Facebook aveva pubblicato una letterina scritta su un foglio a quadri: «Per favore ministro Di Maio mi porta a casa il mio papà?». E invece papà parla al telefono e prova ad accendere i motori.
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