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    “LEI SEDEVA SPESSO DENTRO IL CUBICOLO IN FONDO ALLA TOILETTE ASPETTANDO DI CACARE” – L’INCIPIT DEL LIBRO DI NATASHA BROWN CHE HA ACCUSATO DI RAZZISMO IL MARCHIO ASTORIA, DELLA CASA EDITRICE "GEMS" DOPO AVER VISTO IL SUO "ANATOMIA DI UN FINE SETTIMANA" TRADOTTO IN ITALIANO - L'AUTRICE HA CHIESTO IL CAMBIO DELLA BIOGRAFIA IN COPERTINA, DOVE VIENE DEFINITA "INGLESE DI SECONDA GENERAZIONE", E HA CONTESTATO ANCHE ALCUNE PARTI DELLA TRADUZIONE - "IL LIBRO È ANIMATO DALLA PRIMA ALL’ULTIMA RIGA DALLA CULTURA DEL PIAGNISTEO…" - IL BODYSHAMING CONTINUO VERSO GLI UOMINI BIANCHI


     
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    IL LIBRO DI NATASHA BROWN

    https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/se-dovete-rompe-er-cazzo-pure-come-stampano-libri-stampateli-312490.htm

     

     

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    “Lei sedeva spesso dentro il cubicolo in fondo alla toilette per le signore a fissare la porta. Stava seduta lì per tutta la pausa pranzo, a volte, aspettando di cacare…” È l’inizio di “Anatomia di un fine settimana”, (astoria edizioni, gruppo Gems) 116 pagine di frasette scritte grandi di Natasha Brown che, come riportato da “La Stampa” e Dagospia ha chiesto all’editore, che mal gliene incolse l’ha pubblicata, prima il cambio di copertina, poi una pecetta su una frase nella biografia dove si afferma che è inglese di seconda generazione (cosa vera), infine contestato la traduzione e chiesto il ritiro del libro (unico aspetto sul quale siamo d’accordo: ritiratelo) accusando la casa editrice di razzismo (https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/se-dovete-rompe-er-cazzo-pure-come-stampano-libri-stampateli-312490.htm ).

     

    natasha brown anatomia di un fine settimana natasha brown anatomia di un fine settimana

    Allarmati da tanta sopraffazione siamo andati a leggerlo per voi, così voi potete tranquillamente non leggerlo. Il libro è animato dalla prima all’ultima riga, da quella che il magistrale critico d’arte Robert Huges definì “La Cultura del piagnisteo” (Adelphi, 1993). Ben gli sta a editori e giornali occidentali vista la costruzione del consenso che continuano a fare intorno a figure come quelle di Amanda Gorman (già, dov’è finita la grande poetessa griffata Prada?) e ora Natasha Brown, che qualche copertina di “Vogue” la sta mettendo alle spalle posando come modella. Ecco il gioco: il passaggio da giovane “scrittrice” nera a modella di una maison “bianca” è diventata la regola.

     

    Protagonista del testo (la Brown ha vinto il “London Writers Awards”, premio destinato a favorire “the number of writers from under-represented communities”, annammo bene!) è proprio una inglese di seconda generazione che in quanto nera si sente discriminata anche se totalmente inserita.

     

    Verso gli uomini bianchi, il suo è un bodyshaming continuo: “Erano sei uomini vari per età, stazza e temperamento” (stazza = bodyshaming). “Uno dei più vecchi, grasso” (vecchio = discriminazione; grasso = bodyshaming), “solo un uomo di mezz’età come tanti, dal corpo flaccido e pieno di grinze” (bodyshamiong). Ma essendo nera può fare del bodyshaming.

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    Quando discute se andare a letto o no con il capo ufficio non è perché le piace o per far carriera bensì è una azione politica di smascheramento: “Rachel (ndr ovviamente femminista delle Home Counties, fissata con il manifesto Lean In) era adamantina sul fatto che la sua tresca con uno dei capi del dipartimento globale dello studio era in effetti una sua prerogativa: quella di rivendicare e sovvertire la narrativa delle molestie sul lavoro”. La dà al capo per sovvertire le molestie. Anche perché ha capito perfettamente l’andazzo in corso. Il capo viene cacciato e chi promuoveranno? “Una donna offesa, un’altra ricompensata, mi pare legittimo!”. A posto.

     

    La protagonista scopre che ha qualcosa anche lei da offrire agli uomini di potere bianchi. “In cambio gli offro una certa credibilità liberale. Nego parte del suo bagaglio politico legato alla ricchezza antica. Assicuro la sua posizione a sinistra del centro”: offre la cancellazione di un presunto peccato originale, essere bianco e addirittura benestante: il legame con lei dispensa un automatico giusto collocamento nel mainstream.

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    Le superpotenze, Inghilterra compresa, sono una merda: “Ora è evidente che queste superpotenze mondiali non sono né infallibili né superiori. Non sono niente, non senza una relatività imposta con la forza. Una brutalità sistematica e organizzata che i loro bambini molli e flaccidi possono tollerare a fatica” (ennesimo bodyshaming ai bambini).

     

    Poi ci risiamo, tutto nella logica di “Orientalismo” di Edward Said presa come se fosse il “Vangelo”. “Come dice Bell Hooks: se vogliamo avere significative opportunità di sopravvivenza ci dobbiamo impegnare in una pratica critica della decolonizzazione… sì, sì! Ma non so come… Perché ancora oggi la madrepatria non ha mollato la presa. La Gran Bretagna continua a possedere, sfruttare e trarre profitto da terre conquistate durante i suoi exploit del Ventesimo secolo…Bruciando il nostro futuro”.

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    Viene da chiedersi, ha scritto Caterina Soffici, “se sarebbe stato lo stesso con una donna bianca protagonista. E la risposta è chiaramente no”. Ma Natasha Brown rifiuta questa catalogazione. Se le chiedi come descriverebbe il suo romanzo, risponde: “E' un libro che si interroga sulla narrativa e sul linguaggio. Ogni altra lettura è impropria e dannosa”. Eccome no!

     

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