Emilia Costantini per il "Corriere della Sera"
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Il suo debutto è avvenuto al circo, ma non da attore, né tantomeno da acrobata. «Eh no... come maestro elementare - racconta Lello Arena -. Ho fatto le magistrali e siccome il problema era trovare lavoro, dopo qualche mese di inutili domande a vari istituti scolastici, mi recai un po' incacchiato al provveditorato e dissi: scusate, ci diplomiamo maestri e poi non troviamo posto nemmeno come supplenti.
L' impiegato rispose: eh sì, perché voi siete viziati, il lavoro ci sarebbe ma non lo vuole nessuno. E io gli chiedo: che vuol dire? E quello ribatte: c' è un posto da maestro itinerante in un circo... Avevo davvero bisogno di portare i soldi a casa e, per dare un senso alla mia idea di didattica, mi sono messo all' opera. D' altronde il mondo del circo mi piaceva moltissimo, però c' erano delle regole che andavano un po' oltre la mia idea».
Cioè?
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«Quando arrivai al mio primo incarico, ero molto determinato, ma una mattina vedo una bambina che stava a testa in giù con una sveglia davanti agli occhi... Pensavo stesse giocando e, dato che era orario di lezione, le ho detto: andiamo, devi sederti al banco. Intervenne il direttore del circo e mi spiegò che quella ragazzina si stava preparando a un numero acrobatico che faceva su una pertica alta 30 metri, quindi dovevo farle fare l' allentamento. Allora ho capito che per insegnare in un circo dovevo integrarmi, imparare quelle dinamiche».
È riuscito nell' intento?
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«Sì, ma lo stipendio era molto basso e così mi proposi per fare anche altro. Certo non il clown, ma nei momenti in cui la pista doveva essere ripulita dopo il numero degli elefanti, che facevano un vero macello, io assieme ad altri intrattenevamo il pubblico con scenette ridicole: facevamo finta di litigare, di tirarci l' acqua addosso, spargevamo coriandoli... In quel periodo ho imparato il gioco di squadra, che non ho dimenticato: in un circo tutti sono uguali, dai grandi performer agli inservienti, non ci sono differenze, una grande famiglia».
La sua di famiglia è nata quasi per caso...
«Sì, mio padre Ugo prima di partire per la guerra si era fidanzato con una bella ragazza bionda e mentre si trovava in Abissinia le mandava i soldi che sarebbero serviti al futuro matrimonio. Ma quella ragazza, pensando forse che papà non sarebbe più tornato dalla guerra, dato che era finito in prigionia, si era fidanzata con un altro, stanziale, e si era spesa tutto.
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Quando papà tornò si ritrovò cornuto e mazziato. Ma gli Arena non si perdono d' animo: aveva saputo che ai reduci venivano assicurati posti di lavoro e ne trovò uno alla manifattura tabacchi. Proprio là conosce mia madre, alla quale quell' ex soldatino piaceva tanto e fu proprio lei a fargli la proposta».
Davvero?
«Sì, una bella faccia tosta, data l' epoca. Il fatto è che nel quartiere si era saputa la faccenda della precedente fidanzata e mamma gli disse: non sono bionda, sono mora e non mi mangio i soldi degli altri, ci facciamo compagnia? Si sono sposati e sono stati insieme tutta la vita».
È stato educato dalle suore e voleva fare il chierichetto. Dove nasce la passione attoriale?
«Forse dal fatto che mi prendevano in giro i compagni di scuola. Prima di tutto per il mio cognome: Arena significa sabbia, e mi avevano soprannominato Lello Sabbia... poi, per il mio strabismo, mi chiamavano "occhiestuorte".
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Pian piano, la mia è stata una reazione, recitavo un ruolo, lo strabismo un marchio di fabbrica, una piccola diversità che mi ha reso riconoscibile al futuro pubblico... Ma la volta che mi spinsero giù dalle scale non recitavo...».
Cosa accadde?
«Un compagno voleva vedere che effetto faceva uno che ruzzolava giù. Arrivo fino all' ultimo gradino e, lì per lì, non avverto grande dolore. La notte, però, comincia a gonfiarsi il piede, alle tre del mattino sveglio mio padre. Decidiamo di andare al Pronto soccorso, ma non avevamo la macchina, a quell' ora i taxi non c' erano, trovammo in strada una carrozzella di quelle che accompagnano i turisti sul lungomare.
Il cocchiere ci fa salire ma, per raggiungere il Cardarelli, c' è una salita ripida: il cavallo scivola e stramazza. Il cocchiere ci fa scendere e noi proseguiamo a piedi. Io camminavo a fatica, quando arriviamo l' ospedale è chiuso.
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Bussiamo, ci apre una suora addetta alle medicazioni notturne, che fa appena in tempo a farci entrare e scivola sul bagnato... tutti gli aghi, le siringhe, le bottigliette di medicinali finiscono a terra, un casino. Lei ci urla di andare a cercare il medico di guardia: bussiamo alla porta, quello dormiva... bussiamo di nuovo, poi mio padre spinge la porta e il medico, che intanto si era svegliato e stava per aprirci, riceve una portata in faccia, gli esce sangue dal naso, ci urla di andare da un altro medico.
Era il primario che, sentendo le urla e vedendoci mi chiede incavolato cosa avessi. Gli faccio vedere il piede e lui mi domanda: lo puoi poggiare a terra? Io rispondo di sì. E quello, urlando: allora cammina e andatevene! Avevamo compiuto una strage ed era stato tutto inutile».
Come chierichetto è andata meglio?
«Macché! Una notte di Natale, dopo la succulenta cena della Vigilia, ebbi il compito di tenere la candela accesa vicino al parroco che celebrava messa. Il prete parlava lento, noioso, e io con tutto quello che mi ero mangiato mi appisolo. La candela finisce addosso al parroco e vengo svegliato dalle urla: la tonaca aveva preso fuoco e lui si era trasformato in una torcia.
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Cerco di spegnerlo con l' unico liquido che c' era lì, l' acqua santa... ma era poca. Allora con altri lo avvolgiamo nel tappeto della navata centrale: sembrava un sigaro, era rosso in faccia e gli fumava la testa. Ma non basta: un' altra volta vengo coinvolto, al Duomo, nel battesimo della figlia del sindaco. Mi chiedono di tenere la bambina in braccio, mentre loro scattano le foto con gli invitati.
La neonata era avvolta in eleganti fasce di seta e io, temendo che mi cadesse, la stringo forte per non farla finire nella fonte battesimale che era enorme, sembrava una piscina: la stretta fa effetto banana, la bimba schizza in alto e finisce in acqua. Per fortuna il suo istinto fu di nuotare e io, per uscire dall' imbarazzo, grido: o' miracolo!».
Come nasce La Smorfia con Massimo Troisi ed Enzo Decaro?
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«In verità, la nostra prima formazione si chiamava I Saraceni, ma quando venimmo a Roma, ci consigliarono di cambiare il nome. Ce ne voleva uno meno localizzato, più nazionale e legato al nostro mestiere. Nel lavoro dell' attore la mimica facciale è fondamentale, da qui La Smorfia. Ci divertivamo da matti: io ero il più brutto e giocavo sulla mia diversità. Enzo, il più bello: a teatro le prime file erano gremite dalle signorine che venivano per lui».
Tanti successi insieme, a teatro, in tv e al cinema. Poi la prematura scomparsa di Troisi.
«Il mio più caro amico, una persona sensibile, delicata, una bella mente. Nelle sceneggiature lui mi assegnava il ruolo e poi ci lavoravamo assieme, con lui era un gioco continuo...».
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Tra voi mai incomprensioni?
«Sì, ci fu un periodo di rottura sul set di un film "Le vie del Signore sono finite". Dovevo interpretare un personaggio, un paralitico, poi affidato ad altro attore. Ne avrei dovuto fare un altro, ma la troupe insisteva che dovevo fare proprio quello e Massimo credette che fossi io a insistere per il ruolo, che tramassi alle sue spalle. Non era vero... Negli anni seguenti, tra una telefonata e l' altra, ci riconciliammo e ho un rammarico: averlo lasciato troppo solo».
I suoi maestri?
«Peppino De Filippo: non l' ho mai conosciuto di persona, ma i suoi duetti con Totò erano il mio pane quotidiano. E il grande Eduardo che una volta accolse noi tre nel suo camerino al Teatro Giulio Cesare di Roma e ci chiese: "Voi state ancora a Napoli? Fuitevenne!". Allora la considerava una città ingrata».
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Una città che lei, nel suo libro «Io, Napoli e tu», definisce «una turista». Perché?
«È l' unica città al mondo che invece di farsi visitare, ti visita, ti costringe a fare il punto su te stesso. Poggia saldamente su migliaia di teschi, testimonianze vere della morte, e poi è rimpinzata di santi patroni. La sua tradizionale accoglienza è mitigata dalla tendenza a non fidarsi degli altri, che sono stati spesso degli invasori. Ormai da tempo vivo a Roma, ma quando torno a Napoli vado sempre in un piccolo hotel a via Toledo, mi affaccio da un balconcino e assisto a scenette straordinarie».
Per esempio?
«Una sera, a ora tarda, vedo un bambino con il suo cane: la bestia si era sdraiata sul marciapiede e non ne voleva sapere di alzarsi per tornare a casa. Il ragazzino non lo strattona, ma comincia a parlargli con dolcezza per convincerlo: ho assistito a un monologo struggente».
Un personaggio che sogna di interpretare?
Massimo Troisi e la telecinesi
«Ce n' è uno che mi perseguita, anzi due. Ogni anno mi propongono di interpretare Falstaff, dicendo "sei perfetto!", perché non c' è nemmeno bisogno di mettermi la pancia finta, ce l' ho di mio. E poi, quando vado a Napoli per le feste natalizie, i ragazzini mi scambiano per Babbo Natale, avendo capelli e barba bianca. Mi rimproverano perché l' anno prima avevano chiesto il trenino e gli è arrivata la bici...».
Il 13 luglio sarà all' Auditorium San Domenico di Foligno, dando voce a un grande personaggio, con lo spettacolo «Oh, that Chaplin!».
«È la storia del suo più grande disastro economico. Prima di diventare il genio che conosciamo aveva studiato da violoncellista: era mancino e aveva dovuto far costruire uno strumento che suonava al contrario. Con il pianista con cui si esibiva scrive un vasto repertorio. Stampano gli spartiti, tanti, per farli comprare al pubblico dopo i concerti. Non ne vendono uno e falliscono. Ma quando divenne famoso invitava la crème hollywoodiana a serate esclusive dove si esibiva al violoncello. Era fissato!».
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