Massimo Cotto per “il Messaggero”
leonard cohen con il figlio adam
Se un uomo è vecchio solo quando i rimpianti superano i sogni, Leonard Cohen, Ebreo Errante, poeta della canzone che avrebbe dovuto vincere il Nobel per la Letteratura prima di Bob Dylan, è riuscito a realizzare la meravigliosa impresa di rimanere per sempre giovane, fino alla fine. Un mese prima di morire, il 7 novembre 2016, invece di accartocciarsi nei ricordi, ha chiamato suo figlio Adam, gli ha consegnato una manciata di spunti - a volte semplici tracce vocali, altre volte abbozzi di canzone – e gli ha detto: «Vai avanti tu».
leonard cohen 4
Leonard Cohen, l’uomo che ha avvolto la sua arte in un impermeabile blu, si è comportato come i vecchi saggi che, all’approssimarsi della loro ora, piantano un ulivo sinceramente convinti di vederlo fiorire. Del resto, la filosofia zen a cui si è aggrappato per la seconda parte della sua vita, ha un proverbio che dice: «Nella vita bisogna fare tre cose: fare un figlio, scrivere un libro e piantare un albero».
UN CANTO MORBIDO
leonard con il figlio adam e il nipote
Il prossimo 22 novembre, due mesi da ieri, vedremo i primi frutti dell’ultima pianta dell’artista canadese. Si intitola Thanks For The Dance. Se tutto è all’altezza del primo brano che abbiamo ascoltato, The Goal, siamo in presenza di un capolavoro. The Goal è un canto morbido come un guanto e duro come un pugno nello stomaco. La voce ferma e meravigliosamente ricca di Cohen sfida la povertà dell’accompagnamento: «I Can’t Leave My House», e tutto sa di struggente testamento.
leonard cohen
«I’m Almost Alive, Almost at Home», e non c’è niente da aggiungere. Il canto di mezzanotte di un uomo che non è completamente vivo, che tra poco arriverà alla sua destinazione, ma che non smette di seminare anche quando la giornata è finita e rimane il buio. Adam Cohen, anche lui musicista e cantautore, baciato dalla bravura ma non abbagliato dalla genialità, ha chiamato a raccolta gli amici.
Ognuno ha aggiunto qualcosa, come nelle vecchie cene di campagna dove le donne arrivavano con un po’ di cibo e aiutavano a cucinare. Javier Mas, grande musicista spagnolo che ha accompagnato Leonard sul palco negli ultimi otto anni di tour, è volato da Barcellona a Los Angeles per imprestare la chitarra e catturare lo spirito dei vecchi tempi. Sempre a Los Angeles, Beck ha dato il suo contribuito suonando chitarra e arpa ebraica. A Berlino, durante il People Festival, Damien Rice e Leslie Feist hanno cantato, Richard Reed Parry degli Arcade Fire ha suonato il basso, Bryce Dessner dei The National la chitarra, Dustin O’Halloran il piano.
leonard cohen
A Montreal è intervenuto persino Daniel Lanois, immenso produttore e artista di rara sensibilità, che ha arricchito gli arrangiamenti, mentre il coro Shaar Hashomayim, che ha avuto un ruolo importante nel caratterizzare il sound dell’ultimo album di Leonard Cohen, faceva un passo avanti. Di tutte le collaborazioni, quella dall’impatto emotivo più forte riguarda Jennifer Warnes.
leonard cohen
Amica di vecchia data, aveva iniziato a collaborare con Cohen come corista, poi aveva inciso un bellissimo album di cover di Leonard, Famous Blue Raincoat, che aveva aiutato l’artista canadese a tornare prepotentemente sul mercato. Perché, nel frattempo, Jennifer Warnes aveva vinto due Oscar: uno con Up Where We Belong, cantata in coppia con Joe Cocker in Ufficiale e gentiluomo, e l’altro con (Ive Had) The Time Of My Life per Dirty Dancing. Dopo aver mietuto successi in giro per il mondo, un giorno una giornalista le chiese quale considerasse il punto più alto della sua carriera. Lei rispose: «Essere stata la corista di Leonard Cohen».
leonard cohen
NOVE BRANI
Thanks For The Dance, che racchiude nove brani inediti, contempla anche l’esistenza di un piccolo, bellissimo miracolo: Cohen è sempre stato molto parco nella sua produzione, spesso lasciava passare un tempo eterno tra un disco e l’altro. Una volta, nella sua casa a due piani di Los Angeles, bianca come un’abitazione greca e sempre benedetta da un lieve profumo d’incenso, mi disse che era sempre stato un problema, per lui: «Non ho mai conosciuto l’abbondanza di parole. Per questo ho sempre dovuto lavorare sulla ricchezza della parola».
foto di leonard cohen di guido harari
leonard cohen thanks for the dance
Scavare dentro al significato, far rimbombare le pareti, ingigantirne il senso, moltiplicare le sfumature e le riflessioni. Fin dall’inizio Cohen aveva faticato. Invidiava molto Dylan, che riversava fiumi di testo come in un flusso di coscienza. Proprio ai titoli di coda di una vita bellissima e di una parabola artistica stupefacente, Cohen ha conosciuto un improvviso cambio di passo. Dove prima l’ispirazione frenava, ora conosceva una bella accelerazione. Ecco il miracolo. Abbiamo avuto tante canzoni di Cohen negli ultimi anni della sua vita. Non tutti capolavori, certamente. Ma brani con cui fare legna per le giornate fredde. Thanks For The Dance è esattamente questo: c’è ancora acqua da navigare per il poeta della canzone.
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