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Angelo Carotenuto per “la Repubblica”
Questo è il ragazzo che ammirava Henry e Del Piero, perché non era ancora nato quando la Polonia incantava nel calcio, e neppure ha fatto in tempo a veder giocare Boniek.
Questo è il ragazzo che segnava sotto falso nome per il Partyzant, a Leszno, quaranta minuti di bus da Varsavia, dove non lo tesserarono mai perché non c’era una squadra adatta alla sua età, ma ogni tanto in campo lo mandavano lo stesso: un giorno fece un discreto mucchietto di gol nel primo tempo e dovettero sostituirlo di corsa all’intervallo, per evitare che gli avversari pretendessero di vedere i documenti.
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Questo è il ragazzo che suo padre volle chiamare Robert perché era un nome semplice, internazionale, e non si sa mai nella vita, magari finisce per fare il calciatore, va all’estero, gira il mondo, e troppe consonanti finiscono per disturbare. Bastavano già quelle del cognome, e bene lo sapeva lui, Krzysztof, campione europeo di judo giovanile, morto a 49 anni, probabilmente per aver dimenticato di prendere una medicina.
Su questo trauma, crescendo insieme a mamma Iwona, pallavolista, s’è fatto un carattere Robert Lewandowski, diventando un uomo da 20 milioni di euro e una trentina di gol all’anno. Domani turberà la serenità della Juve dopo aver scavalcato diffidenze e malintesi, dopo essersi visto preferire negli anni rivali improponibili.
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Come Mikel Arruabarrena, oggi una comparsa della serie B spagnola, ma appena otto anni fa scelto dal Legia Varsavia, che scartava così l’idea di riprendersi per 200mila euro Robert dalla serie C, dove lo avevano mandato a far 37 gol in due campionati per un migliaio d’euro. Finì così dai rivali del Lech Poznan, che per irrobustirlo lo facevano saltare in allenamento con un gigantesco difensore colombiano addosso, Manuel Arboleda. Girava su una Fiat Bravo, oggi guida una Ferrari.
«Avere un Lewandowski in patria è un dono del cielo. Significa poter contare su una speranza in più di crescita del movimento intero», dice Zbigniew Boniek, presidente della federcalcio polacca. «Anche grazie a lui, al suo esempio, ai suoi comportamenti all’antica, al suo corpo senza neanche un tatuaggio, le nostre accademie federali sono di nuovo piene: 24 in tutto il Paese, ciascuna può accogliere 120 iscritti fra i 6 e i 12 anni».
GUARDIOLA INCREDULO DOPO LA CINQUINA DI LEWANDOWSKI
Tra quelli che non hanno capito Lewandowski, ci siamo pure noi. L’Italia. Sergio Berti, agente anomalo, nel senso di uomo riservato, quasi mai in tv, semi irraggiungibile al telefono, ne prende la procura per l’Italia da Cezary Kucharski e lo consiglia in giro. Primavera 2010, mica una vita fa. Il Genoa lo fa arrivare, gli fa le visite mediche e gli dà un posto in tribuna per il derby.
Lewandowski fa in tempo a veder segnare Cassano e la sua esperienza italiana è già finita. Preziosi congela tutto. Ha speso 10 milioni l’estate prima per Floccari e si spaventa per i 4 che gli chiedono dalla Polonia. «Non ha la faccia da calciatore», gira questa diceria.
BONIEK
Preferisce farsi dare Destro in prestito. Li spende Klopp da Dortmund, quei milioni benedetti. Così nasce il Lewandowski che abbiamo sotto gli occhi. Anche se all’inizio i due non si prendono: Klopp lo vede trequartista. «Poi ho capito. Voleva che mi completassi», ha detto il polacco in un’intervista al numero di dicembre di Four Four Two.
Robert Lewandowski
«Robert è un introverso, s’è guadagnato con la sua serietà il rispetto dei compagni e dei tifosi in patria, che solo tre anni fa lo fischiavano perché giocava meglio nel Borussia che in Nazionale», racconta al telefono Wojciech Zawiola, giornalista di Tvn24 e biografo ufficiale di Lewandowski: il libro (“Pogromca Reaulu”, cioè “ L’uomo che ha battuto il Real”), scritto nel 2013, esce in questi giorni pure in Germania.
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Serietà e rigore. Anna, la karateka a cui Robert si presentò sotto falso nome (un vizio) e poi sposata, nutrizionista, gli cura la dieta. Le mogli degli altri al Borussia la chiamavano per chiedere consigli: che faccio, lo metto l’olio? Lo racconta Maciej Iwanski, il giornalista polacco che vota per il Pallone d’oro, nella lunga ricostruzione del fenomeno Lewandowski fatta per il trimestrale The Blizzard.
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Una volta, da ragazzino, con il Varsovia si mangiò sei volte il gol dell’1-1 davanti al portiere. Eppure nessun compagno lo affiancò per farsela passare, certi com’erano che prima o poi l’avrebbe messa dentro. Ci riuscì, ma alla partita dopo.
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Ora è un nove verissimo nel cuore del tiki-taka. Se Guardiola a Barcellona segnava di testa un gol su 16, con Lewandowski al Bayern è passato a uno su 7. Chi ha intervistato il polacco, racconta che in compenso è diventato un fenomeno del possesso-frase. Parla, parla, parla. Così allunga i tempi delle risposte, tiene il controllo della chiacchierata ed evita le domande scomode.
ZIBI BONIEK E FAMIGLIA