Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano”
ANNAMARIA FRANZONI
L'Italia è quel Paese dove l'arresto di un boss mafioso fa meno risonanza mediatica della liberazione di un condannato che ha scontato la sua pena. Soprattutto se quest' ultimo è una madre giudicata colpevole di avere assassinato il suo figlioletto di 3 anni. Il fatto che Annamaria Franzoni sia tornata in libertà ha suscitato un clamore esagerato.
Si tratta senz'altro di una notizia, ma non così rilevante da giustificare il modo in cui è stata proposta al pubblico sia da telegiornali che da quotidiani, ossia in dosi massicce e addirittura pedanti fino a farne oggetto di talk-show che ci hanno fatto vivere una sorta di déjà vu: sembrava fossimo tornati all' epoca in cui il delitto fu commesso e la vicenda dominava su tutti i media.
franzoni
Inevitabile che siano montate le polemiche, condite dall' odio e dal quel giustizialismo che sono tanto in voga sulla nostra penisola. Sembra che per tutti sia uno scandalo che il mostro sia già in libertà dopo neanche undici anni di espiazione tra carcere e domiciliari. Franzoni avrebbe dovuto permanere in carcere 16 anni, poi con l' indulto di tre anni e la buona condotta si è giunti a questa riduzione dei tempi della pena, dai più ritenuta inaccettabile.
Ma non abbiamo dubbi che gli stessi si sarebbero indignati anche se la donna avesse trascorso in gattabuia 16 anni e un giorno, poiché si crede che il sistema penitenziario sia una sorta di calderone dell'inferno ove rinchiudere per sempre coloro che sono considerati criminali e non un luogo in cui il reo deve essere rieducato e dal quale poi deve essere reinserito in società una volta saldato il debito con la giustizia.
BARRICATA IN CASA
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Sui social network si sono moltiplicati i giudizi di condanna: c' è chi avrebbe dato ad Annamaria l' ergastolo, chi 30 anni, chi 40, ovviamente senza sconti, chi addirittura la sedia elettrica. Mancavano solo le torture e poi il rogo. E ci consideriamo un Paese civile: un detenuto esce dalla prigione e noi lo accogliamo schifati augurandogli ogni atrocità.
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Ma ciò che più stupisce è che nei programmi televisivi, al fine di intrattenere i telespettatori, si sia ricominciato dal principio, ossia ad indagare sul fatto di cronaca - nonostante una sentenza passata in giudicato e addirittura una pena espiata -, rispolverando vecchie intercettazioni, ricostruendo la vicenda, facendo ipotesi e illazioni stuzzicanti su questa madre e sul perché abbia massacrato il figlio fingendo poi di avere dimenticato tutto. Mentre diamo prova di disumanità, ci sentiamo tutti mondi: poiché la mamma assassina è lei, mica noi, e deve marcire dietro le sbarre.
La signora in questi giorni sta vivendo come una di quelle povere bestie chiuse dentro le gabbie degli zoo, circondate da gente curiosa e obiettivi. Ha telecamere puntate addosso e giornalisti e fotografi appostati davanti casa. Insomma, ella pensava di uscire dal carcere ma - paradosso - ne è entrata. E chissà cosa si aspettano di immortalare i miei colleghi che piantonano la sua porta? Forse di mandare in onda la faccia di un' assassina che è tornata libera e felice?
ANNAMARIA FRANZONI
Se Franzoni è colpevole come è stato stabilito all' esito del processo, il rimorso non l'abbandonerà mai. E già a questo non avrà scampo. Se invece è innocente, e il dubbio è lecito, si tratta di una mamma a cui hanno trucidato un figlio e che poi è stata accusata di questo crimine orrendo. Perché continuare ad infierire persino ora che ha saldato il debito ed ha riacquistato la libertà? Quando diavolo ci sentiremo paghi? Probabilmente mai.
franzoni
Il momento più delicato del recupero è proprio quello del reinserimento post-penitenziario.
Ed è anche il più temuto dai detenuti, dal momento che il carcere, per quanto angusto ed insopportabile, li protegge da ciò che si trova fuori: il rigetto sociale, la mancanza di perdono e il pregiudizio. A volte i carcerati sono davvero pronti ad uscire dalla cella.
Il punto è che la comunità non è pronta mai ad accoglierli. Li isola. Li scansa. Li esclude. Li guarda con diffidenza. O con curiosità morbosa. Proprio come viene osservata Annamaria. La società civile è l' ultimo anello, e non per questo il meno importante, che segna la realizzazione o il fallimento dello scopo stesso della carcerazione, che non è imprigionare ma redimere.
LA STORIA DI ANTONIO
Tutto questo ha fatto riaffiorare in me il ricordo mai sopito di un ragazzo che conoscevo, di nome Antonio, il quale, condannato per violenza sessuale di gruppo e scontata per intero la sua pena, l' ultima notte che avrebbe dovuto trascorrere in carcere prima di tornare alla sua esistenza si impiccò con le lenzuola pulite che gli aveva lavato e stirato la sua mamma. Antonio aveva poco più di vent' anni e si era sempre proclamato innocente. Quando al mattino aprirono la sua cella lo trovarono appeso e già freddo.
STEFANO LORENZI ANNAMARIA FRANZONI
Era troppo tardi. Il giovane lasciò una lettera in cui spiegava i motivi che lo avevano indotto al suicidio: la vita fuori dalla prigione gli faceva troppa paura poiché la gente lo avrebbe sempre considerato autore del crimine a suo giudizio più vile, e lui non avrebbe potuto sopportare quel marchio addosso. Non vedeva più un futuro. Si vergognava davanti alla società, al cui giudizio impietoso non ci si può sottrarre se non scomparendo.
Ma forse Antonio non si è ammazzato. Lo abbiamo ucciso tutti noi. Noi che ci sentiamo candidi. Come sepolcri imbiancati.