1 - LA RAGAZZA CON IN TESTA SCHUBERT E MILES DAVIS
Gino Castaldo per “la Repubblica”
JONI MITCHELL LIBRO
A portarla in California, ancora di fatto sconosciuta, fu David Crosby, che la scoprì in un locale folk in Florida e se ne invaghì all' istante. Come molti altri dopo di lui. La leggenda racconta un episodio che la dice lunga sullo stupore provocato dalla giovane cantautrice.
Sembra che Crosby, approfittando proprio del fatto che la ragazza fosse del tutto sconosciuta, si divertisse a invitare gli amici e solo dopo aver offerto generose dosi di marijuana chiedeva a Joni se gentilmente le andava di prendere la chitarra e suonare qualcosa.
Lei ovviamente accettava e ogni volta puntualmente lasciava i presenti senza fiato. Perché Joni Mitchell era un prodigio, da ogni punto di vista, una cantautrice che aveva in testa Schubert e Miles Davis, con una mobilità vocale sorprendente, una scrittura audace e complessa, un talento esorbitante, raro anche in un' epoca in cui la musica sembrava la nuova polvere magica in grado di trasformare il pianeta e ogni giorno nascevano canzoni in grado di rimanere nella storia.
JONI MITCHELL MALKA MARON
A sentire lei oggi, con la rabbia che ha accumulato in anni di ingiustizie, turlupinature, cinismo dell' industria, solo il fatto di essere donna le ha impedito di essere considerata al pari, se non più, di Bob Dylan e Leonard Cohen.
C' è un pizzico di presunzione è ovvio, ma è verissimo che all' epoca il mondo della musica era profondamente maschilista, e una donna così autorevole, indipendente, emancipata, un poco di imbarazzo lo creava.
I musicisti però stravedevano per lei, ne erano soggiogati, le hanno dedicato molte canzoni, la più romantica delle quali, "Our house", la scrisse Graham Nash creando il più delizioso quadretto domestico mai immaginato in campo rock.
JONI MITCHELL BOB DYLAN
Lei fuggiva, prendeva il volo in continuazione, nomade dell' esistenza per natura e vocazione indomabile, convinta fino a oggi di essere soprattutto una pittrice, e questa inquieta personalità la trasferiva magistralmente nelle sue canzoni che sembravano sempre flussi cangianti, inafferrabili, mai realmente fermi, una dinamica che non casualmente ha affascinato anche alcuni grandi jazzman come Charlie Mingus che la spronò a spingere ancora oltre i suoi orizzonti.
Fu grazie a lui che incise un disco intitolato appunto "Mingus", un tributo meraviglioso, ma anche uno dei dischi dove si può percepire con maggiore forza la libera vertigine di cui è capace la canzone quando osa, quando non ha paura di volare, più in alto del cielo.
2 - JONI MITCHELL AUTORITRATTO DI SIGNORA
Brano del libro “Joni Mitchell - Both Sides” di Malka Maron
JONI MITCHELL LEONARD COHEN
Ho vissuto la fine della civiltà delle carrozze. L' acqua e il latte ce li consegnavano ancora con i cavalli, e a Natale arrivava un cumulo di pacchi sopra una slitta. In paese c' erano solo due negozi. Mio padre gestiva l' alimentari e il papà di Marilyn McGee l' emporio. Io e lei chiamavamo il catalogo di Simpsons-Sears (una catena di grandi magazzini, ndr) "il libro dei sogni".
Da bambina, quando avevo quattro o cinque anni, lo trovavo splendido. Ce ne stavamo sdraiate a pancia in giù a guardare ogni pagina, e in ciascuna sceglievamo il nostro articolo preferito: il nostro busto, il nostro seghetto o il nostro martello preferito. Siccome però razionavamo ogni cosa, quando tutti lo avevano letto diventava carta igienica.
JONI MITCHELL
Perfino il sindaco, renditi conto, si puliva il culo con il catalogo di Simpsons-Sears. Tutta quella carta patinata a colori. Noi invece all' alimentari cercavamo di mettere da parte gli involucri delle arance. Le arance erano incartate in foglietti arancioni.
Cercavamo di farne scorta per usarli come carta igienica. In paese non c' era una rete fognaria. Era come nel Klondike: marciapiedi di legno e elettricità ma niente acqua corrente né cisterne né gabinetti con lo scarico.
Non sono una storpia, non sono una storpia
JONI MITCHELL
L' anno dopo mi presi la polio, e quando scoprirono cos' avevo mi spedirono fuori dal paese, a cento chilometri di distanza. Quando mi fecero capire che non avrei mai più camminato - non lo dissero mai apertamente, ma me lo lasciò intendere un signore che non avrebbe mai più camminato, un signore in carrozzella - io non volli accettare quella sorte e mi dissi: «Non sono una storpia. Non sono una storpia ».
DAVID CROSBY E JONI MITCHELL
Mi alzerò e camminerò, per Dio. «Non sono una storpia... non sono una storpia...». Lo ripetevo a un albero di Natale che mia madre aveva sistemato nella stanza - l' unica volta che era venuta a trovarmi. Mi aveva portato quell' alberello e se n' era andata. Mio padre invece non venne mai a trovarmi in ospedale.
E intanto ero costretta lì, con il Natale alle porte. Dato che eravamo contagiosissimi, dividevo la stanza in un tendone fuori dall' ospedale con un bambino di sei anni che stava sempre col muso lungo e non faceva che mettersi le dita nel naso.
DAVID CROSBY E JONI MITCHELL
Un giorno mi avevano dato non so che cura e mi avevano lasciato seduta sul bordo del letto, tutta storta, con le gambe paralizzate penzoloni. Arriva di corsa una suora e mi dà della svergognata, mi spinge verso la testiera del letto e mi copre le gambe. E io pensai: «Che male c' è se mi vede le gambe?». Quella sera, quando spensero le luci, dissi all' albero: «Non sono una storpia, uscirò di qui... Non sono una storpia, uscirò di qui...».
Era un rituale privato: pregavo per riavere le mie gambe. Non era Gesù né Dio che pregavo. «Ti ripagherò», dicevo a qualcuno. Non so a chi. Forse all' albero? «Ti ripagherò. Tu fammi solo uscire di qui. Fammi riavere le mie gambe». Un anno dopo, finalmente, mi alzai per davvero e camminavo abbastanza bene, così mi lasciarono tornare a casa.
DAVID CROSBY E JONI MITCHELL
Mantenni la promessa. Quando mi chiesero di entrare nel coro della chiesa, dissi di sì. Avevo già partecipato alle prove due o tre volte quando una bambina portò un pacchetto di sigarette e ce ne andammo tutti giù al laghetto prosciugato della chiesa e ce le passammo. Una bambina vomitò. Tutto un gran tossire. Io feci un tiro e pensai: «Ma è fantastico! ». Fumo da allora, da quando avevo nove anni.
Ecco, fa proprio come Bob
joni mitchell
Quella foto di noi due che ci abbracciamo al festival del folk di Newport... Leonard (Cohen, ndr) suonò Suzanne. Ci eravamo incontrati e io gli feci: «Quella canzone la adoro. È un gran pezzo». Davvero. Suzanne era una delle canzoni più belle che avessi mai sentito. Perciò ero tutta fiera di incontrare un vero artista.
Mi fece sentire piccola, perché ascoltando la sua canzone pensai: «Caspita. Al confronto tutti i miei pezzi sembrano così ingenui». Mi sembrava che lui fosse molto più raffinato. Così gli dissi: «Devo leggere un po' di libri», e lui fece: «Che libri?»
mitchell joni 001
«Be', sento sempre parlare di libri, e mi è rimasto il tarlo di essere una stupida perché tutti ne hanno letti un sacco e io no. Dammi un elenco di cose da leggere». Lui disse: «Scrivi proprio bene per essere una che non ha letto nulla. Magari è meglio che continui così».
Mi diede un elenco, tutti libri bellissimi: Camus, Lo straniero; l' I Ching, che ho usato per tutta la vita; Il gioco delle perle di vetro; Siddharta. Un elenco meraviglioso. Purtroppo, però, in quello di Camus scoprii che Leonard aveva rubato delle frasi. “Walk me to the corner, our steps will always...” è una frase di Camus, testuale. E così pensai: ecco, fa come Bob Dylan.
JONI MITCHELL
Io e te siamo troppo avanti Quando mi resi conto che Bob e Leonard rubavano versi, rimasi molto delusa. Poi pensai che c' è qualcosa di moralista nel dire: tu sei un plagiario e io no. Anzi, Leonard si arrabbiò con me perché avevo inserito una sua battuta, una cosa detta da lui, in una delle mie canzoni.
Ma per me quello non è un plagio. Si ruba dai libri o si ruba dalla vita. Con la vita è ammissibile, con i libri no. Questa è la mia personale opinione. Non rubare dall' opera di qualcun altro, se no stai barando. Ruba dalla vita, quella è a disposizione di tutti, no? Una volta andai a cena con Leonard.
mitchell joni
Era sempre difficile parlargli. Fra noi c' era stato un breve legame sentimentale, ma lui era così distaccato, così irraggiungibile. Non c' era un gran rapporto al di fuori della camera da letto. Invece per me doveva esserci di più. Perciò gli facevo un sacco di domande, per venirne a capo. Ricordo che mi diceva: «Ah, Joni, che domande bellissime fai», però poi era evasivo. Diventammo lo stesso amici, e ogni tanto lui si fermava a Laurel Canyon per venirmi a trovare.
Ma con il passare degli anni lo vidi sempre meno, finché quella sera non andammo a cena e quasi non mi rivolse la parola. Io ero a disagio, per la prima volta mi sembrava ci fosse dell' ostilità, e gli chiesi: «Ma io ti piaccio?». Lui rispose: «Be', cosa c' è da dire a una vecchia amante?».
Io dissi: «È un po' un peccato. Dovrebbero esserci tante cose». E lui: «Sei tu quella a cui piacciono le idee». E io: «Se è per questo tu non riesci quasi ad aprire bocca senza che ne esca fuori un' idea». Così, da allora, non ha fatto che dirmi: «Joni, io e te siamo troppo avanti».
JONI MITCHELL VAN MORRISON
Non ha mai più detto altro. «Joni, io e te siamo troppo avanti». Meglio essere una dilettante Sono stata scomunicata da tutte le scuola di musica. Mi avevano scomunicata da Nashville per aver portato un gruppo jazz: pensavano fossi una cantante country o folk finché non mi sono messa a fare quella che chiamavano musica pop - che è semplicemente la mia musica con l' accompagnamento di una band.
Poi, quando ho iniziato a lavorare con musicisti jazz, ci cacciavano via perché eravamo un ibrido. Ma l' ibridazione è l' unica strada che conduce a qualcosa di nuovo. Fino all' uscita di Court and Spark non mi passavano alle radio perché nei miei pezzi non c' era la batteria.
JONI MITCHELL DYLAN
Allora ci ho messo la batteria, e quando ho avuto un po' di passaggi radiofonici all' improvviso era tutto troppo jazz e quando ho fatto Mingus mi hanno detto: «Con un disco del genere ti taglieranno fuori da tutte le radio». In questa società di specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una dilettante.
E alla fine arrivò il successo
A un certo punto ho avuto difficoltà ad accettare la mia ricchezza e il mio successo, persino esprimerli mi sembrava una cosa di cattivo gusto. Avevo ancora l' idea stereotipata che il successo avrebbe guastato il talento, che il lusso mi avrebbe fatto adagiare troppo e accomodare troppo e che il mio dono ne avrebbe risentito. Poi però ho scoperto che ero in grado di esprimere questa cosa nei miei testi.
Per esempio: "Stanotte ho dormito in un bell' albergo/ Oggi sono andata a comprarmi dei gioielli". Insomma, l' unico modo in cui potevo far pace con me stessa e la mia arte era dire: ora è così che vivo. Arrivo ai concerti in limousine. È un dato di fatto. Ehi, volevate vedere la mia faccia? Ho cominciato a dipingere io le copertine dei miei album.
JONI MITCHELL FUMA
Mi dicevano: «Ah, non metterci un quadro. La gente vuole vedere la tua faccia. Si vendono più copie con la tua foto in copertina. Sul primo disco insistevano per avere una foto, così ho preso un mio disegno e ci ho messo al centro una foto col fish- eye. Per il secondo si sono impuntati che volevano la mia faccia, così ho dipinto l' autoritratto di Clouds, in cui guardo dritto davanti a me. Volevate vedere la mia faccia? Eccola qua, vi sta guardando.