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Malcom Pagani per Vanity Fair
A parte che gli anni passano, per non ripassare più: «Tra 10 mesi, a quanto mi dicono, dovrei compierne 60. So che è una menzogna e per sanarla ho deciso di andare all’anagrafe con una rivoltella. Farò un bel discorso: “I casi sono due, o mi ridate subito indietro gli ultimi 40 o qui finisce male”».
Luciano Ligabue continua a proteggere l’autoironia e i sogni di rock’n’roll che nel quadro immobile della pianura, tra un biliardo e un cielo bianco, lo hanno fatto tornare sempre al punto di partenza. Il patto, stringersi di più, è lo stesso di quando iniziò, quasi per caso, a metà degli ’80: «Fu una benedizione. Non avevo nessuna aspettativa o paura e accadde tutto con una naturalezza impressionante. Mi capitarono, in sequenza, una serie di colpi di culo uno dopo l’altro». Guardandosi indietro, a un passo dal tour negli stadi che lo vedrà viaggiare da sud a nord, Ligabue scopre di essere stato fortunato: «E non ho nessun tipo di pudore o vergogna nel dirlo».
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Perché dovrebbe averla?
«Magari per scaramanzia. La fortuna, anche se tendiamo a negarlo, serve a chiunque».
Non credeva di avere questo successo?
«Se ci ripenso, rimpiango l’incoscienza del primo anno. Il più bello. Il più disincantato. All’epoca da parte mia non c’era nessuna assunzione di responsabilità. Immerso in un mondo che non conoscevo ancora, vivevo quel che accadeva con leggerezza. Dopo magari sono arrivati successi più appaganti, ma quella libertà non l’ho più ritrovata».
Si sente meno libero oggi?
«Sicuramente. Il successo può restituirti un’euforia di fondo, ma non rende per forza felici. Siamo educati a pensare che raggiungeremo la felicità affermandoci nel nostro lavoro, però se penso a Elvis, o al club dei grandi artisti morti a 27 anni, da Janis Joplin a Kurt Cobain, capisco che è un’equazione impropria».
Accade di riscoprirsi più soli?
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«Dipende da come si è. Io faccio caso al fatto che quando qualcuno mi parla, non si rivolge a me, ma alla persona che pensa io sia. È un atteggiamento che può far sentire soli e a volte mi dispiace. Una cosa però l’ho capita».
Quale?
«Il successo dà dipendenza. Pensare che ti venga a mancare all’improvviso l’attenzione della gente può creare ansia. Diamo spesso per scontato quello che abbiamo e ci spaventiamo quando pensiamo di perderlo».
Ha mai temuto di perderlo?
«Ogni tanto sì, o almeno di perderne una buona parte. Credo di avere un patto forte con il pubblico. Ci fidiamo l’uno dell’altro e l’idea che in questo rapporto qualcosa si possa incrinare mi inquieta: chi mi segue si aspetta da me un certo tipo di verità. Io te la offro, se la sfanculeggi o la metti in discussione divento più fragile».
I vecchi del paese dicevano: «Quello non lavora, canta».
«Avevano ragione. Cantare è stato ed è un gran divertimento e un privilegio indiscutibile, però nel tempo l’inconsapevolezza si è trasformata in altro. Ho avvertito il peso delle aspettative, delle responsabilità».
Un peso che confina con l’amore per quel che si fa?
«Non è che confina, ci finisce dentro di brutto».
Se non avvertisse responsabilità comporrebbe brutte canzoni.
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«Non so, magari succede comunque» (sorride). Amo le canzoni che non hanno nessun compito se non quello di far cantare qualcuno con concetti che non devono essere per forza pensosi o sofferti. Anche se non ne ho scritte così tante, sono le canzoni che fanno star bene me e quelli che le intonano».
Le manca leggerezza?
«Forse sì. Mi pare che alcuni miei “colleghi” se ne sbattano e vivono meglio. Forse per carattere o forse per la radice catto-comunista che mi porto dietro, non riesco a pensare che il mio privilegio sia gratis. Questo bisogno di dare il massimo un po’ di tormenti me li crea».
«Leggero, nel vestito migliore, nella testa un po’ di sole ed in bocca una canzone» l’aspirazione la cantava già tempo fa.
«Sono abituato a vivere a forte intensità emotiva. Sottopormi alle sollecitazioni è un tema quotidiano. Un modo di vivere al quale sono ormai abituato e che forse crea qualche difficoltà a chi mi sta vicino. Confrontarsi con questa intensità non è semplice. Non a caso forse tifo per l’Inter».
Ci spieghi il nesso.
«L’Inter da sempre è vittima dei propri umori. Perde in casa col Parma e poi vince all’ultimo respiro col Tottenham. Sempre estrema. Imprevedibile. Mai banale. Comunque non è una squadra per cardiopatici».
Lei come fa a tenersi al riparo dai propri umori?
«Non ce la faccio mica, è la mia natura. Sono fatto così. So che la saggezza starebbe nel vivere le emozioni e non nel farsi vivere da loro, però non sempre ce la faccio».
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Sapere come si è fatti non è consolante?
«Ci sono tante parti di me che conosco meno, questa, diciamo, l’ho esplorata a lungo».
Quando ha cominciato a capire chi era?
«Il mio mestiere amplifica le cose. Se non ti accorgi di come sei neanche in presenza di questa amplificazione significa che sei un po’ cretino».
Lei cretino non si sente.
«Cretino no, timido sicuramente. Lo sono sempre stato. Mio padre, un uomo che cambiò tantissimi lavori e proprio come mia madre si fidava della vita, non si capacitava di avere un figlio timido. Quell’eredità, la fiducia nella vita, anche se soltanto a metà, è presente. Però io ero introverso e ho sempre avuto un mio mondo. Pensavo a come poter vivere una vita migliore mentre magari facevo il ragioniere. Non è che avessi chiaro come poter fare. Intanto cercavo di vivere al massimo il tempo libero».
Le ragazze?
«Piaciucchiavo e quindi avevo la fortuna di non dover fare il primo passo. Se mi capitava di avere una relazione per lo più tacevo. Stavo zitto e loro confondevano la timidezza con la figura del macho misterioso. Ero solo imbranato e faticavo a espormi e a raccontarmi. Non era una tattica, ma funzionava».
Si ricorda la sua prima volta?
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«A 15 anni, con una di più di venti. Non credo si sia divertita tanto. Comunque anche per me non fu quel granché. Credevo meglio».
Ogni tanto veniva deluso?
«Ebbi un innamoramento forte in età adolescenziale. Lei mi mollò e io, rivedendola vent’anni dopo un po’ conciata, ci ho scritto una canzone lievemente sadica e vendicativa: Eri bellissima. Piuttosto chiara la mia immaturità, eh? Comunque la canzone mi piace».
Il tempo passa. Cambia anche la percezione dell’amore?
«L’età non mi ha disilluso sull’amore. Anzi. Come si sa l’amore è una condizione, non solo un sentimento verso una persona. Apre al mondo mentre la paura chiude. Negli anni mi sembra sempre di più di espormi su quel tema in tutto quello che faccio. In Polvere di stelle (che apre Start, ndr) riesco finalmente a dire: “Ho bisogno di te che hai bisogno di me per cambiare il tuo mondo. Hai bisogno di me che ho bisogno di te per cambiare il mio mondo”. E il mondo lo si cambia trasformando il proprio mondo personale».
Le costa fatica?
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«In generale, non chiedo mai niente. Mi rendo conto che il mestiere che faccio è una contraddizione in termini. Sono introverso, ma vado sul palco e lì mi mostro più sicuro di me di quanto non sia nella vita».
In questi decenni si è intravista una certa coerenza artistica.
«Quello non posso non concedermelo. Propongo al pubblico la verità di cui le parlavo e lo faccio con i cambiamenti naturali della vita. Cambio io, cambia la società, cambio io all’interno della società. L’autoritratto che ne viene fuori è l’album che esce di volta in volta. Poi c’è sempre chi dice: “Ah però i primi dischi”».
E lei cosa risponde?
«Che se avessi continuato a fare la stessa cosa sarei stato disonesto. Non so neanche se rimestare la minestra di ieri avrebbe restituito un buon sapore. Conosco l’autocritica, la pratico, la frequento».
Non pretende di piacere a tutti.
«L’inizio fu talmente folgorante che al principio mi illusi si potesse. Una cosa veramente da fuori di testa, eh? Ma sono stato capace di pensare anche quello. Poi ho capito molto presto che non era possibile e me ne sono fatto una ragione. Sono molto orgoglioso. Faccio il mio nel modo in cui so farlo e lo metto in circolo con il massimo dell’impegno».
ligabue sul trono a sanremo
Quando ha capito di poter raccontare delle storie ambientate soprattutto in un luogo?
«Uno dei miei segreti è stato credere che quel luogo fosse raccontabile. È una cosa che richiede incoscienza e un po’ di presunzione. Me lo spiegò Pier Vittorio Tondelli, di Correggio, come me. Scriveva: “Ognuno la vita se la fa e se la disfa da solo”. Aveva ragione. Io l’ho fatto in un posto preciso. Ho giocato in un campionato totalmente mio. In un territorio che conoscevo e nel quale ho vissuto per tutta la vita. Il mio raggio d’azione artistico è stato geograficamente limitato, ma mi ha permesso di andare ovunque, anche sotto il pelo dell’acqua».
ligabue sanremo quarta serata
E cosa ci ha trovato?
«Tutte le domande che si fa chiunque sul senso dell’esistenza. Non è detto che abbia trovato le risposte, ma non ho smesso di cercarle».
Ligabue crede in dio?
«Sono stato cattolico e non lo sono più da tanto tempo, ma ho da sempre un forte bisogno spirituale. È una ricerca costante, un percorso che sto facendo da tanto tempo. Credo che ci siano un po’ di regole nell’universo capaci di dare senso a quel che facciamo e a collocarci, che tu faccia il cantante o il benzinaio, in un impianto più generale. Se le vuoi chiamare dio o altro, importa il giusto».
Che rapporto ha avuto con la malinconia?
«Ho un’indole un po’ malinconica e credo lo spieghino molte delle mie canzoni. È uno stato d’animo che conosco abbastanza bene. A volte mi piace anche provarla, altre meno».
È così che va per tutti, per citarla.
«Anche se la predisposizione sarebbe quella, cerco di non cadere nella trappola della nostalgia. Evito di pensare che ieri fosse tutto migliore di quanto non sia oggi».
La più grande cazzata che ha fatto in vita sua?
«Non ne ho una in particolare, ma un buon numero che si piazzano tra le prime 30. La verità è che non mi sono mai messo in guai serissimi».
Qualche volta non si è piaciuto?
ligabue salzano zaggia
«Ah, perché, dò la sensazione di piacermi? Pensa te. Dover ammettere il fallimento del mio primo matrimonio e dover portare avanti non solo quel tipo di dolore, ma anche tutte le implicazioni che sarebbero venute da lì in poi, a partire dalla gestione di un figlio, mi ha fatto sentire molto male. Non la considero una cazzata, ma un processo inevitabile della mia vita che forse doveva capitare. Nonostante questo non ne vado fiero».
Poi le ferite si rimarginano.
«Se fossero ancora aperte dopo tutti questi anni non sarei conciato benissimo».
In Quello che mi fa la guerra si sfiora l’autobiografia e il nemico, sembra dirci, è dentro di lei.
marco ligabue
«L’ho beccato. L’ho stanato. Ognuno di noi ha dentro di sé il suo migliore amico e il suo peggior nemico e le nostre decisioni dipendono da quello a cui diamo più ascolto. Poi come sappiamo combattere un pensiero vuol dire dargli forza. Se provi a sfidare uno stato d’animo, un po’ di consapevolezza è necessaria».
Sta per tornare negli stadi con un concerto in cui porterà il nuovo disco e tutte le sue hit storiche. Aveva detto di non essere certo di cantare Balliamo sul mondo sull’orlo dei 60 anni.
ligabue ferdinando salzano e barbara zaggia
«Avevo detto sull’orlo dei 50. Poi fortunatamente vedo Mick Jagger sculettare ancora cantando Satisfaction e mi dico che posso andare avanti un po’ anch’io».
Ci vuole scienza, ci vuol costanza a invecchiare senza maturità diceva Guccini. Ci è riuscito?
«Penso che quello che mi è capitato nella vita mi abbia messo nella condizione di sviluppare una mia maturità: dovevo prendere delle decisioni e farlo con gli occhi addosso, essere rapido e lucido. Però nel momento in cui dico che il successo dà dipendenza, ammetto già che il processo di crescita è ancora lungo. Un certo grado di immaturità continua ad appartenermi».
Ci vuole anche per cantare davanti a decine di migliaia di persone in uno stadio? La prima volta fu nel ’97.
«Una sola cosa mi è molto chiara: finalmente arriva quello che conta. I dischi li canti, li produci, ci pensi tantissimo. Lo stadio è un’altra cosa: è come se sul palco ci fosse una gigantesca calamita».
luciano ligabue premiato
E che succede?
«Io sono il ferro. Non farmi salire sul palco fin dal pomeriggio è un problema: non vedo l’ora di cominciare. Quando sono lì non mi preoccupo tanto della performance canora perfetta e non ragiono come un cantante, ma come uno che ti deve dire le cose e che ha una voglia pazza di urlarle. Cantandole si sentono meglio. È così oggi ed era così anche nel ’97. Nel pomeriggio ci fu una bufera. Piovve per ore, nell’aria c’era tensione, sembrava non funzionasse niente. Poi arrivò il momento di salire e le nubi sparirono. L’adrenalina era tale che diedi a tutto braccio una pennata alla chitarra. Mi tagliai un piccolo callo e mi partì quasi la punta del dito. Avevo una camicia e una canottiera bianca. La canottiera si macchiò di sangue e la gente, sotto, forse pensò si trattasse di un colpo di scena».
Maioli, lo storico manager che segue Luciano da trent’anni, fuori campo, conferma. «Volevo che scendesse». Luciano chiosa sorridendo: «Risposi: “Col cazzo che scendo!”. Forse fu uno spettacolo un po’ macabro, ma se Ozzy Osbourne mangiava la testa dei pipistrelli, potevo avere un po’ di sangue sulla camicia a San Siro anch’io».
luciano ligabue (2)
Start, il suo disco, è la filiazione di una paura più seria. L’operazione alle corde vocali è del 2017.
«Partiamo per il tour e mi viene un’influenza talmente forte da dovere cancellare la prima a Jesolo. Mi curo, ma non passa. Cancelliamo anche le 5 date di Roma e ricominciamo da Acireale. In mezzo, ci sono due o tre ricadute, poi arriva marzo e festeggio il mio compleanno al Forum di Milano dove faccio un concerto bellissimo. “Cazzo” mi dico “ne sono uscito”. La mattina dopo sono completamente afono.
made in italy film ligabue
Ho un’altra serata milanese e dopo aver lavorato con il vocal trainer, faccio una puntura di cortisone e vado in scena. Il forum è pieno, sono tutti lì per noi e dopo 3 pezzi crollo. Pensavo a una nota e me ne usciva un’altra. Immagini la frustrazione. Credo sia stata la peggiore esibizione della mia vita, ma di mollare non me la sentivo. Ho chiesto scusa al pubblico, ho finito il concerto e il giorno dopo mi hanno detto “ti devi operare e devi farlo subito”».
Ha mai avuto paura di non poter tornare a cantare?
ligabue smutniak accorsi
«Certo, quella paura l’ho avuta: se la porta dietro chiunque debba subire quel tipo di operazione. È una partita molto delicata. Da un lato c’è un esercito di persone a rassicurarti, “guarda, lo fanno tutti”, “non ti preoccupare”, “la voce dopo è meglio di prima”. Dall’altro ci sei tu che devi provarlo sulla tua pelle. Devi fidarti, ma la voce è il tuo strumento e quindi ti ripeti: “Adesso lo vediamo come va, lo vediamo veramente”».
E l’ha visto.
«Prima è arrivata la rieducazione e poi è stato il momento di vincere un po’ di resistenze e di paure. La voce non è solo una corda da far vibrare, ma è anche anima, cuore, psicologia. All’inizio il timore mi ha frenato, poi è successo quello che mi avevano promesso. Ho ritrovato il timbro di ieri e ho risentito me stesso. È incredibile, ma vero. La voce è proprio migliorata».
ligabue procacci smutniak accorsi
In quei giorni ha dovuto far fronte anche a seri problemi logistici.
«Credo di detenere il triste primato del più grande spostamento di date della storia della musica italiana. 34 serate già fissate, centinaia di migliaia di biglietti. Mi è arrivata un’onda di affetto incredibile, da gente che magari si era programmata un sabato a Milano e si è ritrovata spostata in un lunedì del cazzo. Hanno tutti conservato il biglietto per sei mesi e per me è stato uno di quei gesti che allora, olé, devo dare per forza ancora di più. Lo farò».
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Che sensazioni ha provato in quel periodo?
«Quella stranissima di non poter parlare. Nella prima settimana comunicavo soltanto con i tablet e il silenzio di quei giorni non solo non me lo sono scordato, ma non mi è dispiaciuto. C’era un senso di solitudine amplificato, non brutto. Abbiamo bisogno di saper ascoltare noi stessi e gli altri, ma per riuscirci abbiamo bisogno di più tempo e di più silenzio. È difficile, soprattutto ora che è tutto così convulso e veloce. La corsa è a parlarsi addosso ed è difficile che si creino le condizioni giuste. Ma crearle è una delle chiavi per star bene nella vita. Siamo nati per accogliere e abbiamo bisogno di essere accolti dagli altri, ma dobbiamo anche tornare ad apprezzare il silenzio».
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A proposito di accoglienza. I migranti sono diventati un tema di scontro politico. Il Paese le pare incattivito?
«Più che incattivito, in buona parte è esasperato dai problemi. Tra cui la gestione di questo tema. Ad ascoltare il dibattito non sembra ci siano possibilità di discussione: o è porto aperto o è porto chiuso, o è porta aperta o è porta chiusa. O on oppure off. Ma quello dell’accoglienza è un tema troppo grosso e importante per essere liquidato con un interruttore».
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