Estratto del libro “l’Italia non è più italiana” di Mario Giordano, edizioni Mondadori
MARIO GIORDANO L ITALIA NON E PIU ITALIANA
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LO STRANIERO È GIÀ PASSATO: OGNI 48 ORE SI PRENDE UN’AZIENDA ITALIANA
Ha ciglio asciutto e toni scolpiti come il carattere della sua gente, il friulano Alessandro Calligaris, quando nell’agosto 2018 annuncia di aver venduto al fondo internazionale Alpha la sua storica azienda. Siamo a Manzano, provincia di Udine, in quello che è rimasto dell’ex distretto d’oro delle sedie.
La Calligaris è stata fondata addirittura nel 1923. È passata di padre in figlio. Alessandro, terza generazione, è al timone ininterrottamente da 52 anni, uno dei più longevi industriali di tutto il Nordest. Eppure, anche lui è costretto ad arrendersi. «Non avevo eredi» confida al «Messaggero Veneto». E chissà adesso, a quell’azienda, che cosa accadrà.
Per carità: i propositi di chi compra, all’apparenza, sono sempre buoni. Le dichiarazioni, al momento dell’acquisto, rassicuranti. Ma quel che segue, in genere, sparisce dai radar. Nessuno lo conosce. Ed è assai meno entusiasmante. Lo stesso fondo internazionale Alpha, per esempio, nel 2015 aveva acquistato il gruppo Pavan, storica azienda di Galliera Veneta (Padova), fondata nel 1946 e diventata numero uno al mondo nella produzione di impianti per alimenti a base di cereali. Per farne che? A parole grandi cose: investimenti», «rafforzamenti», «accrescimento della presenza internazionale».
BOMBASSEI MONTEZEMOLO PUNZO DELLA VALLE PRESENTANO ITALO NTV
Due anni dopo, però, nel silenzio generale ha rivenduto tutto ai tradizionali concorrenti tedeschi del gruppo Pavan, il colosso Gea di Düsseldorf. Investimento? Rafforzamento? Accrescimento? O solo un assoggettamento? O, peggio, una razzia? A noi le razzie non piacciono. Perciò siamo andati alla ricerca di dati che nessuno strombazza. Li abbiamo trovati. E ci sembrano spaventosi. Da sei anni a questa parte, infatti, la media è questa: ogni 48 ore un’azienda italiana passa nelle mani degli stranieri.
Una ogni 48 ore. La ricerca Reprint - Politecnico di Milano - Ice non lascia spazio a dubbi: nel 2012 le imprese italiane partecipate da stranieri erano 12.185. Nel 2017 sono diventate 13.052. Cioè 867 in più in sei anni, esattamente 144 l’anno. Una ogni due giorni. Il record nel 2015, quando sono passate di mano 262 aziende italiane, in pratica una al giorno (esclusi sabato e domenica). Roba da scrivere la nuova agenda settimanale della nazione: lunedì si vende una società alimentare; il martedì una della moda; il mercoledì il gioiello della tecnologia…
Non passa lo straniero? Macché lo straniero è già passato da un pezzo. E il risultato si vede. Quello che colpisce è lo spadroneggiare delle multinazionali sulle nostre piccole e medie aziende, su quelle che sono sempre state la nostra forza, l’ossatura del miracolo economico, la spinta propulsiva dei nostri boom.
MARIO GIORDANO
Ancor prima dei grandi marchi (che fanno notizia), della siderurgia (che abbiamo perduto) e della chimica (pure), fa impressione la razzia che è stata fatta nel sottobosco delle nostre meraviglie, in quel piccolo mondo di gioielli di creatività, miracoli di fantasia, aziende fondate in un magazzino o in un sottoscala, accudite e cresciute per anni con il nostro genio. E consegnate poi, in quattro e quattr’otto, allo straniero di turno. Così. Senza nemmeno un titolo su un giornale. Senza un allarme nazionale. Senza che ne parli nemmeno un talk show.
E io lo so che ora in molti diranno: ma che male c’è? Non è un bene essere apprezzati nel mondo? Farsi comprare non è forse un modo per crescere? Per diventare grandi? Internazionali? Per farci valere sui nuovi mercati planetari? Sarà. A me, però, continua a venire in mente la storia di Invatec. Non la conoscete? Ve la riassumo. Si tratta, anche in questo caso, di una eccellenza italiana, fondata nel 1996 da un trentenne bresciano, Andrea Venturelli.
Una piccola azienda familiare che prima produceva tubi in gomma per lavatrici e poi, grazie a una geniale intuizione, è diventata leader mondiale per la produzione di stent e cateteri di altissima qualità. Specializzazione, innovazione, internazionalizzazione: insomma, tutto quello che nei convegni di Cernobbio riempie la bocca agli editorialisti importanti, Alessandro Penati e i suoi fratelli. Sembra un miracolo, ma è la realtà: i tubicini e le valvolette prodotti nei capannoni di Torbole Casaglia e Roncadelle, nella Bassa Bresciana, là dove prima si producevano tubi per lavatrici, sono arrivati negli ospedali di tutto il pianeta.
PASSERA PRESENTA NTV I TRENI RIVALI DI TRENITALIA
Un successo tricolore, al sapor di genio e casoncelli al burro fuso. Purtroppo, però, questa favola ha un gusto assai più amaro dei casoncelli. E il finale non è altrettanto gradevole. Soprattutto non è per nulla tricolore. Nel 2010, infatti, quattordici anni dopo la fondazione, il fondatore Venturelli ha annunciato la vendita del suo gioiello. Lo ha ceduto al colosso americano Medtronic, di Minneapolis. Ha incassato 500 milioni di euro. È rimasto ancora qualche mese in azienda, per garantire il passaggio, poi si è ritirato, a soli 45 anni, a «godersi la famiglia», come ha detto lui stesso, prima negli Stati Uniti, poi in Indonesia.
«Vendere agli americani è l’unica possibilità per garantire un futuro a quest’iniziativa» aveva detto nel momento in cui firmava l’accordo, per rassicurare tutti. E tutti infatti ci avevano creduto. Peccato che nel giugno 2018 da Minneapolis sia arrivata la smentita ufficiale: gli stabilimenti bresciani chiuderanno entro il 2020, tutta la produzione sarà trasferita in Messico. Per 318 dipendenti è l’incubo della disoccupazione, per l’Italia un altro gioiello che se ne va. E quelli che nei convegni si riempiono la bocca di innovazione, specializzazione e internazionalizzazione? Non se ne vede uno davanti a quelle fabbriche. Nemmeno uno. Nemmeno un Penati. Soltanto la solita pena.
E LE BANCHE POPOLARI SONO FINITE TUTTE AI FONDI STRANIERI
Se l’industria pesante parla ormai straniero, il settore dei servizi segue a ruota. Banche, aeroporti, autobus, energia: quanto controlliamo ancora? Sempre di meno. La storia più incredibile è quella di Italo Ntv, il treno ad alta velocità, che fin dal nome doveva essere un inno al patriottismo tricolore. A inizio 2012 i proprietari promettevano a gran voce che avrebbero difeso il brand italiano: comfort italiano, poltrone italiane, cibo italiano, film italiani.
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A inizio 2018 avevano già venduto tutto agli americani. Italo, infatti, oggi è del fondo Usa Global Infrastructure Partners. I fondatori (fra cui Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle) hanno incassato circa 2 miliardi di euro. Non pochi. Soprattutto se si pensa alle agevolazioni di cui il treno ha usufruito, ovviamente tutte scaricate sullo Stato in nome dell’italianità. Vuoi non aiutare un’iniziativa così patriottica?
Avanti a suon di tariffe agevolate. Tanto paghiamo noi. Peccato che, mentre i contribuenti italiani sovvenzionavano il treno Italo perché restasse Italo, esso invece diventava Americo. Facendo un po’ più ricchi Montezemolo e Della Valle. E un po’ più povero il Paese.
«Vedo tanta retorica sul rischio di colonizzazione» ha commentato Montezemolo. «Ma quando eravamo sul punto di portare i libri in tribunale, nessuno ha alzato un dito.» È vero: nessuno ha alzato un dito. E così, in fatto di italianità, siamo andati per aria. Ma, purtroppo, anche per aria comandano gli stranieri. Air Italy (ex Meridiana) è nell’orbita del Qatar. Air Dolomiti è della tedesca Lufthansa. Alitalia è passata infelicemente per le mani degli arabi di Etihad, prima del commissariamento: ora è in bilico fra una nuova nazionalizzazione e altre società straniere (fra cui Lufthansa e Delta).
Negli aeroporti di Firenze e Pisa è entrata una società argentina (Corporación América), che poi ha aperto le porte anche a un fondo del Dubai, mentre i fondi tedeschi (Deutsche Bank) e francesi (Infravia) hanno messo piede negli aeroporti di Venezia e Treviso, e gli inglesi di Njord Partners si sono fatti avanti per quello di Ancona. E dire che solo nel marzo 2017 il «Sole-24 Ore» scriveva che gli aeroporti sono «roccaforte di italianità».
gdf suez
Alla faccia della roccaforte: viene voglia di buttarsi in mare. Anche in mare, però, la situazione non è migliore: nel porto di Genova si fanno largo i cinesi, che hanno già puntato forte anche su Trieste e Venezia; il terminal di Genova Sech è nelle mani dei fondi francesi, che controllano anche Livorno; i danesi si sono presi il terminal frigorifero di Vado Ligure (il più grande del Mediterraneo); i tedeschi sono insediati a Cagliari e Ravenna; e l’ex Lloyd è proprietà di Taiwan.
Le Grandi Stazioni? Dal giugno 2016 appartengono a una cordata italo-francese. Nei trasporti locali avanzano i francesi della Ratp e i tedeschi di Deutsche Bahn, che attraverso Arriva già gestiscono i bus di Lecco, Como, Bergamo, Brescia, Cremona, Udine, Trieste, Imperia, oltre che una parte di quelli di Aosta e Torino. La logistica? Sempre più nelle mani degli americani di Prologis che si sono appena comperati 100.000 metri quadrati a Piacenza, da aggiungere ai 250.000 che hanno già. Sugli acquedotti allungano le mani le multinazionali francesi Veolia e Suez.
palazzo sertoli sede credito valtellinese
Edf ed Engie (pure loro francesi) sono entrati nel mercato elettrico. Mentre cinque delle nostre principali centrali a gas (Livorno Ferraris, Ostiglia, Tavazzano, Scandale e Trapani) più una a carbone (Fiume Santo in provincia di Sassari) sono gestite da Eph, una società della Repubblica Ceca. Sapete che significa? Che una parte importante dei nostri rubinetti energetici vengono aperti e chiusi da un signore che sta seduto a Praga. Voi vi sentite tranquilli? Io nemmeno per un po’.
Persino i taxisti chiedono aiuto: è sbarcato in Italia il servizio MyTaxy, gestito dal potente gruppo tedesco Daimler Benz, e rischia di spazzare vie le cooperative di casa nostra. Le agenzie interinali? Le principali sono state comprate: Obiettivo Lavoro è dell’olandese Randstad, Men at Work è stata rilevata da un fondo private equity spagnolo. I fondi Usa Carlyle si sono presi i call center di Comdata. E la Borsa italiana? Non è più italiana ma del London Stock Exchange Group, controllato dagli arabi, per altro. Ne riparleremo più avanti.
Il caso più clamoroso, però, è quello che riguarda le banche popolari. La riforma voluta nel 2015 dal governo Renzi ha finito infatti per mettere in ginocchio quello che era sempre stato un antico e solido tesoro dei nostri territori. Tesoro che, così, è stato consegnato come un pacco dono ai fondi speculativi esteri. Lo denuncia da tempo (inascoltato) il presidente dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari, l’avvocato Corrado Sforza Fogliani: «Dopo quel decreto tutte le popolari convertite in società per azioni (tranne una) sono finite a fondi speculativi esteri». Una mossa voluta? «Lo stabilirà la magistratura» risponde Corrado Sforza Fogliani in un’intervista alla «Verità» (12 novembre 2018). «Ma si tratta di un esito così generalizzato che mi pare difficile non lo si fosse capito da prima.»
LA SEDE DELLA BPM - BANCA POPOLARE DI MILANO - A PIAZZA MEDA A MILANO
Di fatto il risultato è sotto gli occhi di tutti. I principali azionisti del Banco Popolare di Milano sono i fondi norvegesi (Norges Bank) e americani (Invesco e Capital Research). Quelli del Credito Valtellinese? Fondi francesi, americani e perfino delle Bermuda. Quelli del Credito Emiliano? Fondi norvegesi e francesi con anche un po’ di inglesi. Quelli del Bper? Fondi americani e norvegesi con una piccola spruzzata di Lussemburgo… Ci furono, ai tempi dell’approvazione del decreto, molti sospetti. Si parlò di insider trading. E soprattutto si discusse sui motivi di quella fretta, come mai fosse necessario vararlo con tanta urgenza.
A chi serviva? Sforza Fogliani un’idea ce l’ha: «Chi comanda in questa Europa vuole divorarsi le piccole aziende italiane» dice. «Per farlo, il primo passaggio è colpire le banche di territorio, cioè quelle che aiutano le piccole e medie imprese.» Obiettivo centrato, verrebbe da dire.
Ma, purtroppo, non è solo un problema delle popolari. Anzi. Riguarda tutte le principali banche italiane. Della Bnl si è detto: è di Paribas. Cariparma è del Crédit Agricole, che si è preso anche la Cassa di Risparmio di La Spezia e quelle di Cesena, Rimini e San Miniato. In Intesa hanno fatto capolino i fondi americani (Blackrock) e norvegesi (Norges Bank). In Ubi ci sono i fondi inglesi (Silchester Intl) oltre al solito Blackrock. E Unicredit è addirittura al 96 per cento di proprietà dei fondi stranieri (74 per cento inglesi e americani). E qui mi fermo, altrimenti rischiamo di sentirci male. Nel caso, vi consiglio di farvi ricoverare all’Humanitas di Rozzano, alle porte di Milano. Grande clinica. Ovviamente di proprietà di un gruppo argentino.
creval credito valtellinese