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    "ESSERE DISABILI RICHIEDE AUTOIRONIA, IL NOSTRO È UN MONDO IN CUI CI SI PRENDE MOLTO IN GIRO" – PARLA LUCA PANCALLI, PRESIDENTE DEL COMITATO PARALIMPICO, DOPO LA PIOGGIA DI MEDAGLIE DI TOKYO: “NON SIAMO SFIGATI E NON SIAMO EROI. SIAMO ATLETI. LO SPORT MI HA TRADITO E FATTO RINASCERE. BEBE È UNA FORZA DELLA NATURA, DI ZANARDI CI MANCA TUTTO. QUANDO LE LUCI SI SPEGNERANNO, NON ABBANDONATECI. LA POLITICA? MI DIVERTO TROPPO A FARE IL DIRIGENTE SPORTIVO. IL PRIVILEGIO DI DISTRIBUIRE QUALCHE VAFFA È IMPAGABILE..."


     
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    Gaia Piccardi per corriere.it

     

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    Adesso che la compassione è finalmente diventata comprensione, possiamo parlare di silenziosa rivoluzione culturale. La pioggia di medaglie italiane alla Paralimpiade di Tokyo (cerimonia di chiusura domenica), sulla scia della trionfale Olimpiade dei quaranta podi di Gimbo Tamberi e dei suoi fratelli, ha portato alla ribalta l’umanità straripante dello sport dei disabili, un magma incandescente che Luca Pancalli, 57 anni, romano, presidente del Comitato Italiano Paralimpico dal 2005 (prima era Federazione italiana sport disabili, dal 2017 il Cip è ente autonomo di diritto pubblico e, in quanto tale, scorporato dal Coni) conosce come la sua vita, terremotata da una caduta da cavallo nel giugno 1981, a Vienna durante un meeting internazionale di pentathlon moderno. Frattura delle vertebre cervicali, lesione midollare, paralisi degli arti inferiori. Aveva 17 anni.

     

    Il segreto del vostro successo a Tokyo.

    «Le società sportive e i corpi militari dello Stato alla base, più le 21 Federazioni del Cip. Tutti hanno fatto il loro dovere».

     

    Italia stupor mundi.

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    «Cinquantotto medaglie in nove giorni di Paralimpiade. Italia nona nel medagliere dominato dalla Cina. E non è finita qui: possiamo già dire che abbiamo eguagliato il risultato migliore di tutti i tempi, che al netto della Paralimpiade di Roma ‘60 che non fa testo (23 Paesi, solo 400 atleti, tutti paraplegici) fu Seul 1988. Raccogliamo i frutti di un’azione di politica sportiva intrapresa nei primi anni Duemila.

     

    No, io non sono sorpreso: se lo fossi, non avrei la consapevolezza di aver lavorato bene. Patologicamente scaramantico come sono, non avevo voluto fare pronostici. Ma lo stupore è tutto degli altri, non mio. E in questi ultimi tre giorni di gare mi aspetto il record. Quello che non era nelle previsioni è altro...».

     

    A cosa si riferisce?

    «Non mi aspettavo l’attenzione che questa Paralimpiade ha generato, la passione del mondo dei media nei nostri confronti».

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    Un cambio di percezione dell’opinione pubblica, però, grazie a Alex Zanardi e Bebe Vio, c’era già stato.

    «Ma Tokyo segna un salto di qualità. Vedo la giusta considerazione che questi atleti azzurri meritano, lasciando perdere pietismo e compassione».

    Come se lo spiega?

    «Approfittiamo dell’onda generata dai colleghi olimpici: noi, in fondo, siamo l’altra faccia della medaglia dello sport italiano e rappresentiamo quella resilienza che, dopo il lungo lockdown, la crisi economica e la pandemia, si richiede anche al Paese. Lo sport paralimpico regala passione, speranza, è una salvifica luce in fondo al tunnel».

    Quasi tutti i medagliati in Giappone si sono raccomandati: non chiamateci eroi.

    «A Seul ‘88, la mia seconda Paralimpiade, i titoli sui giornali erano sugli eroi sfortunati. Ci vuole misura nelle cose: non siamo sfigati e non siamo eroi. Siamo atleti. Il riconoscimento del movimento paralimpico passa dalla legittimazione della nostra dignità».

    Bebe Vio è il volto internazionale del movimento. Cos’ha in più di tutti gli altri?

    «È una forza naturale nel modo in cui comunica spontaneamente e nella trasmissione di energia, è una potenza anche sui social. Ma Bebe è il volto di altri 114 volti, qui a Tokyo tutti meritano attenzione».

     

    Era al corrente dell’infezione che ha messo a rischio la vita di Bebe?

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    «Ho seguito la vicenda passo a passo. Sono stati momenti difficilissimi per Bebe e la sua famiglia. Nella sua doppia medaglia c’è lo sfogo alla fine di un periodo terribile».

     

    Di Bebe colpisce anche l’ironia: c’è rimasto poco da amputare, ha detto al chirurgo che l’ha operata.

    «Guardi che questo è un mondo in cui ci si prende molto in giro, c’è un’autoironia sulle proprie sventure di vita comune a tutti. Lo sport insegna a guardare alle tue abilità, non alle disabilità. Girano battute che non immaginereste mai: quello che a voi sembra anormale, qui è tremendamente normale».

     

    Bebe a parte, c’è una storia di questa Paralimpiade che l’ha colpita particolarmente?

    «Ciascun atleta ha una sua singolarità, che ti travolge e sconvolge. Cito per tutti Antonio Fantin, oro nel nuoto, che ha ringraziato la mamma per averlo costretto ad andare in piscina. Ecco le famiglie, nel momento di un trauma importante che ti cambia la vita, sono fondamentali. Io stesso, senza la mia alle spalle, non avrei fatto niente».

     

    È stato atleta, poi paratleta, ha scritto manuali di diritto, ha fondato il Cip e dato cittadinanza ai disabili in Italia, Pancalli. Qual è il suo più grande talento?

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    «Non averne... Mi riconosco una grande passione per il lavoro di dirigente sportivo e considero il mio più grande orgoglio Maria Giulia e Alessandro, i miei figli. Ma parliamo degli atleti, preferisco».

    Tra un attimo. Lo sport l’ha costretta in sedia a rotelle: l’ha mai odiato?

    «Mai, mai, mai. Lo sport mi ha forse tradito ma poi mi ha restituito la consapevolezza di potermi rialzare e rinascere».

     

    Crede nel destino?

    «Credo che ciascuno di noi abbia una missione sulla terra e io, nel mio piccolo, mi sono prefisso di lasciare un segno pur essendo nulla, perché nulla sono. Avevo una visione: dare dignità al movimento paralimpico. Ho avuto alle spalle una squadra che ha seguito un pazzo».

    A Tokyo ha dedicato un pensiero a Alex Zanardi, l’ispirazione di tutti.

    «Alex è impegnato in una gara durissima, qui in Giappone manca tutto di lui: l’uomo, l’atleta, la sua ironia. Ma quello che ha fatto Alex, lo stanno facendo in tanti: Federico Morlacchi, portabandiera con Bebe, ad esempio, ha preso un ragazzino amputato, Alberto Amodeo, e l’ha portato a vincere un argento nel nuoto a Tokyo».

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    L’Italia è un Paese gentile con i disabili?

    «È un Paese con luci e ombre. Si possono fare molti passi avanti sul diritto allo studio e al lavoro, sull’assistenza a chi non è autosufficiente, sull’erogazione di protesi e ausili ai ragazzini amputati perché l’handbike di Zanardi costa. Iniziamo a rispettare il diritto al posto di chi è da anni nelle liste di collocamento... Dobbiamo continuare a credere nello sport come strumento di welfare anche dopo Tokyo».

     

    Teme che i riflettori si spengano?

    «Si spegneranno eccome, lo so. Però i problemi della disabilità rimangono appesi. Non c’è solo lo sport paralimpico, qui in Giappone sono venuti solo in 114 atleti: c’è lo sport quotidiano come percorso di riabilitazione e benessere. C’è la coscienza di un Paese che deve continuare a riconoscere il diritto di cittadinanza dei disabili. Io spero che chi parla ora, chi cerca i like con le nostre medaglie, non ci abbandoni e resti dalla nostra parte per combattere in favore di politiche sociali che ci riguardino».

     

    Tornerà alla politica attiva, Pancalli?

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    «Mi diverto troppo a fare il dirigente sportivo. E poi, invecchiando, ho scoperto che mi piace moltissimo dire quello che penso. Vede, ho tutti i difetti: sono anziano e disabile, ma il privilegio di distribuire qualche vaffa è impagabile».

    La sfida delle medaglie con Malagò è ufficialmente stravinta.

    «Lo sfottò da spogliatoio ci sta, ma chi vorrebbe sovrapporci sbaglia: dimostra di non conoscere né lo sport olimpico né lo sport paralimpico».

     

    Quindi la proposta di far svolgere Olimpiadi e Paralimpiadi contemporaneamente è una falsa idea di eguaglianza?

    «È un sogno rischioso: tra l’oro di Tamberi e quello di Barlaam prevarrebbe sempre il primo. Il percorso di maturazione culturale non è completato, i disabili gravi verrebbero abbandonati perché sono poco televisivi, nella Paralimpiade invece è giusto che il palcoscenico sia tutto per loro. Essere televisivi non ci interessa. Ci interessa avere rispetto e riconoscimento».

     

    Rifarebbe tutto?

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    «Riprenderei la prima corsa della metropolitana alle 6 per attraversare Roma e andare all’Acquacetosa per allenarmi appena uscito dal liceo scientifico su Via Tuscolana, sì. Sono malato di sport da quando ero bambino e non guarirò mai».

    È più risalito a cavallo?

    «Una volta sola, in un centro di ippoterapia, ma sono smontato subito. Quando sono uscito dai mesi di allettamento, mi sono guardato allo specchio: ricordavo un baldo 17enne tartarugato e invece ho visto un bambino impaurito, che doveva affrontare una vita diversa. Quello sguardo l’ho rivisto in ciascuno dei 114 azzurri di Tokyo».

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