Dario Pappalardo per Robinson - la Repubblica - Estratti
lucio amelio doc
Andy Warhol a spasso nei Quartieri Spagnoli, con un corno rosso che gli pende dagli occhiali. Joseph Beuys che dà da mangiare a una lucertola, a Capri.
Jannis Kounellis che riempie lo spazio con la sua installazione fatta di caffè macinato. «L'arte contemporanea è una bomba a scoppio ritardato», diceva. La bomba esplose a Napoli, a metà degli anni Sessanta. La bomba si chiamava Lucio Amelio (1931-1994), che definire “gallerista” è riduttivo.
Fu la miccia che innescò un movimento, ancora in corsa, nelle stazioni della metropolitana, come nelle piazze, nei musei che ora ci sono, ma che prima non si poteva nemmeno immaginare. Lucio Amelio fu il catalizzatore di forze convergenti su Napoli, la sua città, ma che si irradiarono fuori.
A questa figura il cui dna, anche inconsapevolmente, sopravvive in parte della scena artistica di oggi, è dedicato il documentario di Nicolagelo Gelormini, presentato alla Festa del Cinema di Roma e presto su Rai 5 e in streaming su Rai Play. È un rincorrere i luoghi del personaggio: Villa Campolieto a Ercolano, il Vesuvio sullo sfondo, Anacapri, piazza dei Martiri e Parco Margherita a Napoli, ma senza cedere alla cartolina.
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Il cittadino Amelio viene raccontato dalle voci di chi lo conosceva bene, dribblando l'agiografia. «Eravamo avventurosi, non avventurieri perché non avevamo le possibilità economiche – ricorda Achille Bonito Oliva che con lui, tra l'altro, pubblicò la rivista Made In – Lucio diventò subito un punto di riferimento tra noi che non eravamo rassegnati». «Ci rincorrevamo, ci misuravamo e ci facevamo qualche dispetto», ribatte l'amica-nemica gallerista Lia Rumma, che contro Warhol e Beuys, schierati dal rivale, avrebbe reclutato poi Marina Abramovic.
«L'incontro con lui corrisponde agli inizi della mia formazione. Portava il teatro dove non c'era, parlava al telefono in inglese, tedesco, francese, poi abbassava la cornetta e urlava in napoletano», racconta Toni Servillo, che faceva parte del gruppo di Teatri Uniti a cui Amelio concesse un ufficio: lui con Mario Martone e Angelo Curti avrebbero cominciato da lì.
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Il pubblico si siede per terra ad ascoltare lo sciamano tedesco che dirà: «Nel Mezzogiorno è rimasta quell'idea di popolo oggi distrutto dall'industrializzazione e dall'americanizzazione». Ma l'America arriva anche a Napoli: Amelio riesce nel miracolo di inquadrare l'asceta di Beuys con il re del Pop Warhol. Il primo aprile 1980 in piazza dei Martiri, duemila persone seguono i due poli opposti del contemporaneo.
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«Lucio Amelio era un nome che mi risuonava nella testa, quasi una leggenda metropolitana – spiega il regista del documentario Gelormini, classe 1978, già aiuto di Paolo Sorrentino e autore del film Fortuna – Si impossessa di un segmento come quello dell'arte contemporanea che era molto più complicato del cinema o della musica. È stato un Big Bang che ha consentito la nascita di tanti movimenti. Per questo ho voluto sapere chi fosse davvero. La sua è una storia quasi epica. I frutti di quella stagione sono ancora attorno a noi. L'eredità sopravvive». Già malato, Amelio sceglie di essere sepolto a Capri, disegna la sua lapide con sopra inciso un cerchio e il titolo di un'opera di Beuys: L'isola del sonno.
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