Estratto dell’articolo di Mara Gergolet per il "Corriere della Sera"
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Birkenstock e Barbie
La prossima settimana Birkenstock si quota a Wall Street. E sarà, con la capitalizzazione dell’azienda che ha raggiunto i 9 miliardi e un’offerta iniziale che porterà alle sue casse 1,6 miliardi, il terzo maggiore debutto in Borsa dell’anno. Non male per un’azienda tedesca che produce suole di sughero, se non fosse che Birkenstock è dal 2021 nell’orbita di Lvmh. I francesi con la finanziaria L Catterton ne controllano la maggioranza, e il figlio di Bernard Arnault, Alexandre (dopo Musk, sono pur sempre gli Arnault la dinastia più ricca del mondo) entrerà nel consiglio di amministrazione.
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A riprova di quanto il mondo del lusso si è espanso con la globalizzazione e i social, tanto che Lmvh è tra le pochissime aziende europee a poter competere con i giganti americani. Le Birkenstock si vendono oggi in 25 milioni di paia all’anno. Fa nostalgia pensare ai tedeschi che calavano sulla riviera romagnola con i sandali e il calzino bianco ai piedi, guardati di traverso se non un po’ compatiti. O anche ripensare che solo dieci anni fa, sui traghetti per la Grecia, quando già cominciavano a diffondersi dappertutto, giuravamo che mai avremmo indossato quella scarpa rozza, salvo metterla oggi — per la sua comodità — come inseparabile compagno in valigia e usarla ovunque in città. […]
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Il primo sandalo nasce solo nel 1962, e poco dopo negli anni Settanta arriva il modello Arizona, tuttora il più venduto. È il passaggio in America che però conferisce al «sandalo tedesco» uno status identitario. A portare le prime Arizona in California fu Margot Fraser, una tedesca trapiantata a San Francisco che durante una vacanza in patria, dolorante per le vesciche e i dolori ai piedi, fu consigliata da un medico di provare le Birkenstock. Guarita, e conquistata, ne acquistò la licenza per venderle in America, ma il ritorno a casa fu un fiasco.
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«Sono la cosa più brutta che abbiamo mai visto, nessuno le indosserà mai», le rispondevano i negozianti e infatti non trovò distributori.
Fu così che le piazzò nei negozietti di cibo salutista della Baia, che cominciarono a attrarre studenti e hippy: e da lì si diffusero a San Francisco — insieme alla voglia di libertà di una generazione di pacifisti, femministe e attivisti Lgbt che ricusavano i reggiseni e i tacchi, a vantaggio di gonnellone e sandali. La controcultura aveva trovato un simbolo.
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[…] è solo negli ultimi dieci anni che il fenomeno è veramente esploso. […] è al genio di Phoebe Philo che viene attribuita la definitiva esplosione.
Nel 2013, da Céline, mette in passarella con il suo snobismo intello-chic le Birkenstock foderate di pelliccia. Ed è subito mania. Il resto sono numeri. Così sdoganate, così universali queste ciabatte che Andy McDowell ne indossa un paio di fosforescenti sotto il vestito di gala, quando nel 2021 ritira il suo primo Oscar. Certo, va detto che la Birkenstock è un’azienda complessa.
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Ha 800 linee di calzature, prodotti ortopedici, linee per il sonno: se vale 9 miliardi è perché ha intercettato il trend salutista molto prima di altri, usa adesivi ecologici dagli anni Ottanta, si affida alle collaborazioni. Oggi è, con la birra, forse la più riconoscibile icona tedesca. Tanto che quando Barbie, nelle celebre scena del film di Greta Gerwig diventa umana, scende dalle punte e indossa le Birkenstock.
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