Maria Laura Rodotà per il “Corriere della Sera”
Negroni
Un tempo eravamo santi, poeti e navigatori. Un tempo eravamo l’avanguardia artistica e architettonica dell’occidente. Un tempo, perlomeno, vendevamo all’estero un’enorme quantità di scarpe e vestiti e tutti pensavano che noi avessimo stile. Ora un po’ meno, abbiamo sempre meno occasioni per sentirci fieri di noi. Quest’estate succede grazie a qualche nuotatrice, e poi quando ci copiano un cocktail. L’ultimo baluardo dell’orgoglio patriottico è di colore acceso, e si chiama Negroni.
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È l’unica creazione italiana celebrata al momento nelle grandi Capitali; il New York Times dedica al fenomeno un lungo articolo. Il Negroni, si legge e si era visto, è ufficialmente l’aperitivo ganzo di chi pretende di saper vivere. Era apprezzato, prima che dai newyorkesi-londinesi-losangelini ecc., dal regista Orson Welles e dallo scrittore Kingsley Amis (l’autore del pezzo va sul sicuro, sono pochi gli alcolici che non piacevano a Orson Welles e Kingsley Amis, insomma).
È «virile e colorato insieme», informa Alex Pincus, proprietario dell’Oyster Bar Grand Banks di Manhattan, quindi adatto al giovane maschio contemporaneo affluente, sia etero che gay. Sembrerebbe un drink deficiente da ubriaconi al mare, spiega il quotidiano, ma nella sua composizione classica — Campari, gin, vermut — è una «serious libation». «Nonché un giuramento di fedeltà alla Dolce Vita, un segnale segreto tra intenditori, un indicatore del proprio stato di persona alla moda».
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In più — questione non irrilevante nell’epoca dei social network e della vita che se non viene condivisa non è vita — il Negroni è una bevanda fotogenica; e su Instagram, e su Pinterest, abbondano le foto di aperitivi in cui viene esibito (spesso solo il Negroni, iconico, attraente). Non è molto, ma è cromaticamente antidepressivo, il che di questi tempi aiuta (anche chi trova che abbia un saporaccio, rivelandosi così nemico della Patria, pare).