Luca Telese per “TPI - The Post Internazionale”
TPI - LE FOTO DELL INCONTRO TRA MATTEO RENZI E MARCO MANCINI ALL AUTOGRILL
L’autogrill del mistero. Impressioni ingannevoli, narrazioni fantastiche, scenari da film di spie, personaggi enigmatici: se non ci fossero i documenti tutto potrebbe sembrare possibile nella saga dell’incontro tra Renzi e lo 007 Mancini, e sul giallo che questo episodio proietta sui giorni tumultuosi della crisi che ha prodotto la caduta del governo di Giuseppe Conte (quelli in cui l’episodio si è verificato).
Quel faccia a faccia é costato a Marco Mancini l’addio al servizio. E a Matteo Renzi l’epiteto di “Mostro” (che, a onor del vero, si è autoassegnato - polemicamente - da solo).
A tutte le ricostruzioni immaginifiche, cronachistiche e letterarie che sono seguite oggi TPI ha da opporre la forza di qualcosa di molto più concreto. I nudi documenti, e la loro asciutta analisi. Guardate con attenzione, dunque questi scatti che proponiamo oggi per la prima volta nella loro sequenza originaria: sono immagini che fino ad oggi erano rimaste inedite. Sono tredici foto scattate una dopo l’altra, più due brevissimi video di pochi secondi. É in questo reperti che si cela la chiave di tutto, la risposta del mistero, che - come vedremo - mistero non è.
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SCATTI NON TAGLIATI
Queste sono le foto originali che la “professoressa dell’autogrill” scatta d’istinto, con il suo telefonino (un normalissimo Smartphone) nella piazzola della ormai celebre area di servizio in cui si ritrova testimone di un incontro circospetto tra Matteo Renzi e l’uomo con scorta che lei quel giorno non riconosce, e che poi si rivelerà essere Marco Mancini (un importante dirigente dei servizi segreti). Al contrario di quello che abbiamo visto, commentato e pubblicato fino ad oggi (per motivi che spiegheremo) queste immagini, depositate in Procura ma mai pubblicate, sono qui proposte senza nessun intervento.
TRE INTERROGATIVI RISOLTI
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Analizzando questo scatti del dicembre 2020 in versione integrale - con attenzione - si scoprono degli elementi di dettaglio, apparentemente piccoli, ma in realtà decisivi per rispondere ai tanti interrogativi che sono stati posti in questi mesi (dopo lo scoop di Report e le violente polemiche che seguirono la rivelazione di quell’incontro).
Ci sono delle differenze rilevanti rispetto alle immagini note. E questi dettagli possono provare la veridicità delle affermazioni messe a verbale dalla professoressa (che per comodità, d’ora in poi, chiameremo “Valeria”).
In particolare ci sono tre elementi che sono chiariti senza possibilità di dubbio, malgrado tutte le ricostruzioni di comodo: 1) Solo una persona (e non due diverse) scatta le foto dal suo telefonino. 2) C’è un unico punto di ripresa (e non due) da cui sono prese tutte le immagini, e questa ricostruzione é coerente con la posizione e la scena raccontata agli inquirenti dalla professoressa. 3) Quando scatta questi fotogrammi, dunque, Valeria è dentro la sua macchina.
TPI - LE FOTO DELL INCONTRO TRA MATTEO RENZI E MARCO MANCINI ALL AUTOGRILL
La macchina della professoressa, una 500L, é identica a quella che appare nelle foto. Tra poco, leggendo l’articolo e compulsando le immagini originali capirete da cosa si desumono questi tre elementi e perché voi stessi potete verificarlo dagli scatti originali che mettiamo a vostra disposizione.
LA CAMPAGNA DI RENZI
Come è noto, tuttavia, da due anni l’ex presidente del Consiglio dice e ripete che la ricostruzione della professoressa (lo ha fatto anche lunedì scorso) “Non sta in piedi nemmeno con gli stecchetti”. Dice e ripete che la versione di Valeria non può che essere falsa, che quelle immagini - a suo dire - dimostrano che le inquadrature sono state riprese da due diverse telecamere (prova indiretta che lui fosse sottoposto ad un pedinamento professionale).
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A detta dell’ex sindaco di Firenze queste sue deduzioni sarebbero a loro volta la prova che la “sedicente professoressa” (parole sue, per mettere in dubbio persino la vera professione di Valeria) non esiste, oppure si offre (tralasciamo per ora l’assoluta inverosimiglianza a di questa ipotesi) come semplice “copertura” di un lavoro fatto da altri.
Il fatto che la professoressa secondo Renzi non dica la verità, sarebbe la prova di una attività di pedinamento ai suoi danni, di una sorveglianza, cioè, svolta da poteri ignoti. Renzi è certo che la storia del padre malato sia una scusa, e il suo malore che porta la professoressa in autogrill non sia altro che una mascheratura (“il papà aveva il cagotto?” Dice scherzando sulla malattia del padre della professoressa). Per questo ironizza in più occasioni sui tempi di permanenza della famiglia in piazzola, che dilata ad oltre un’ora per spiegarne l’inverosimiglianza (ma quella malattia, come vedremo, risulta agli atti).
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Renzi aggiunge (vedi l’articolo di Giuliano Guida Bardi) che non si capisce perché mai la donna sia stata ferma a filmarlo “per un’ora e mezza”, e come sia possibile che ben due scorte non se ne siano accorte. Raccontando la versione che abbiamo riassunto, il leader di Italia Viva ha sviato, nel tempo tutto gli interrogativi su questo incredibile incontro. Come e perché lui fosse lì, come mai i due uomini, l’ufficiale dei servizi e l’ex premier, non si siano visti non in un luogo ufficiale, ma, addirittura, nella piazzola di un autogrill in via di ristrutturazione sulla autostrada A1.
E che - per giunta - lo abbiano fatto in pieno lockdown con il traffico interregionale proibito ai privati. Renzi ha raccontato addirittura (nella sua prima versione) che il pretesto dell’incontro fosse uno scambio di “babbi”, di pastarelle natalizie Emiliano romagnole, un atto di cortesia in occasione delle feste. Poi, comprensibilmente, i “babbi” sono spariti dalle versioni successive di Renzi. Ma tutto ciò, in questa sede non ci interessa. Ci interessano invece queste immagini, e quello che ci raccontano.
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DAGLI IGNOTI ALLA PROFESSORESSA
Quando il magistrato che indaga arriva ad identificare con un nome e un cognome la professoressa (di cui Sigfrido Ranucci ha difeso fino all’ultimo l’identità, opponendo il segreto professionale), lei consegna agli inquirenti tutti i suoi file, in una chiavetta dati, e spiega di non avere nulla da nascondere. Offre la sua testimonianza senza nessun omissis, come farebbe ogni cittadino.
La donna, ha spontaneamente comunicato ai legali di Renzi la propria identità si è resa disponibile ad essere interrogata dagli stessi avvocati del senatore di Rignano (che però, curiosamente, non hanno voluto approfittare dell’opportunità). Nella chiavetta, dunque, ci sono video e immagini: si tratta - per essere esatti - di due brevissime registrazioni rispettivamente di 27 e di 29 secondi (altro che un’ora e mezza di attività spionistica!). E poi dei sedici scatti che trovate impaginati nella sequenza originaria e senza tagli in questo nostro racconto grafico.
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Oggi questo foto sono depositate agli atti dell’inchiesta, accessibili alle parti (a cominciare dai legali di Renzi). La professoressa, interrogata dagli inquirenti ha racconta come e perché ha scattato quelle foto e registrato quelle sue sequenze (“mute”, perché l’unico audio che si sente durante i video é la sua voce nella macchina, mentre parla alla madre). Valeria ha fornito le pezze di appoggio di queste due affermazioni (lo abbiamo raccontato su TPI, nel numero scorso) che spiegano perché lei si trovasse in quel luogo, e proprio in quel giorno.
Si tratta del certificato medico del padre (che spiega perché lei si era fermata alla ricerca di un bagno), delle ricevute di estratto conto del telepass (che provano la sua presenza in autostrada a quell’ora). Non ha inseguito lei Renzi o Mancini, fra l’altro, ma sono loro che sono arrivati sulla scena, dopo che lei aveva già posteggiato l’auto nella piazzola.
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ACCUSA DERUBRICATA
Il magistrato evidentemente ha creduto alla professoressa, se è vero che ha derubricato la denuncia contro ignoti in cui Renzi si spingeva fino ad ipotizzare addirittura una azione di indagine illecita. La professoressa invece esiste, ha una identità, non ha mai avuto nessun contatto con nessuna “barbafinta”, ha frequentato molto collegi dei docenti, per il suo lavoro, ma nessuna sede dei Servizi segreti.
Quindi, a partire da questi scatti cade il teorema che Renzi ripete in ogni piazza d’Italia e si pone una domanda: se lui e i suoi avvocati hanno avuto avessi agli atti, perché entrambi continuano a mettere in dubbio l’identità della professoressa? Mistero. Oppure, più semplicemente: spettacolare manovra diversiva.
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Ma qui si arriva un paradosso: il pm, proprio mentre nega il teorema dello spionaggio, perché ha accertato l’identità di Valeria, pensa di doverla indagare per un’altro reato che nulla c’entra con le barbe finte e i pedinamenti. Si tratta l’articolo 617 septies del codice penale. Quello commesso, cioè, da chi realizza in modo fraudolento e divulga delle immagini di privati per far loro danno (acquisendo questi dati in maniera coperta).
Ed ecco perché i documenti che TPI sono doppiamente decisivi: sia per provare che è stata veramente la professoressa a fare le riprese dei video e le foto. Sia per chiarire che non ha violato il 617 septies: non solo perché sia Renzi che Mancini sono personaggi pubblici (lo 007 fu per mesi sulle prime pagine di tutti i giornali ai tempi della liberazione di Giuliana Sgrena, la sua non era una identità segreta). Non solo perché il luogo era pubblico (uno spazio aperto e non protetto). Ma anche e soprattutto perché - come potete constatare - le immagini integrali dimostrano che chi ha scattato le foto era dentro la macchina, con i vetri non oscurati.
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Dunque potenzialmente visibile dall’esterno, se solo i due interlocutori l’avessero degnato della loro attenzione. Non esiste dunque “fraudolenza”, o inganno, solo sottovalutazione da parte di chi si è messo a parlare di fronte a lei. Ma le immagini provano anche, e questo è ancora più interessante, che non ci sono due riprese, due punti di osservazione, ma una sola posizione visuale: quella che parte dal telefonino della professoressa.
PASSEGGIATA PROSPETTICA
Sono Renzi e Mancini che si spostano, semmai, camminando mentre parlano, come prova la sequenza completa degli scatti e la piantina con la nostra ricostruzione nella scena. Basta prendere i riferimenti sul vialetto: i due partono da vicino al cancello di metallo, poi si avvicinano ai due alberi accoppiati (riprodotti dal nostro disegnatore Manolo Fuchecchi) e infine si fermano a parlottare avendo alle spalle - come potete vedere - della casina bassa di una ben visibile centralina elettrica. Valeria, che è seduta sul lato passeggero anteriore della sua auto, mentre aspetta il padre, sta parlando con la madre, che è seduta dietro (e si mette proprio lì, perché se fosse nel lato guida non potrebbe farlo, se non in posizione innaturale).
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UNA 500 SENZA SEGRETI
Non solo: i finestrini della macchina, negli scatti che vi mostriamo si ritrovano a fare da “marcatori” di supporto della versione fornita dalla professoressa agli inquirenti. Nella prima serie di foto, quelle in cui i due interlocutori sono più distanti, Valeria inquadra dunque Mancini e Renzi nella “cornice” del suo finestrino, ovvero il vetro del lato passeggero anteriore della sua macchina (una delle più tipiche familiari la mitica Fiat 500L, non certo una vettura da 007).
Così, quando passo dopo passo i due camminando arrivano davanti alla casina bassa, sono loro che si sono avvicinati a lei, e non il contrario. Per realizzare questi ultimi scatti, dunque, la professoressa deve cambiare angolazione e - pur restando davanti - inquadra i due uomini in piedi davanti a lei, nella luce del suo finestrino posteriore. In quel momento sono a brevissima distanza. Nelle immagini che vi mostriamo è ben riconoscibile il montante centrale della 500 che separa i finestrini posteriori.
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CARGLASS E MODANATURE
In uno dei primi scatti è ben visibile, anche se è ovviamente rovesciata (perché ripresa dall’interno) l’etichetta di un carglass marker che la macchina della professoressa ha ben visibile sui suoi due Vetri delle portiere anteriori. Quindi non esiste più dubbio che quella sia la macchina della piazzola nell’autogrill, la stessa in cui sono state scattate le foto dei due che parlano, una vettura privata. E che sia proprio identico a quella della professoressa, la stessa ripresa da Massimo Giletti nello scoop di “Non é l’arena” (il primo in cui é stato mostrato, sia pure oscurato, il volto della donna).
IL LOGO SUI SEDILI
Di più: nel secondo dei due video, l’obiettivo della telecamerina si muove per inquadrare la scena. E proprio quando Valeria sta ultimando la registrazione, l’inquadratura scivola sullo schienale anteriore. Sono visibili e ben riconoscibili i rivestimenti particolari della tappezzeria disegnati dalla Fiat apposta per questo modello di macchina: in stoffa acrilica antimacchia, con doppia cucitura bianca sui bordi, e con un caratteristico inserto sullo schienale, che reca stampato in grande formato (più o meno della grandezza di una agenda) il logo tridimensionale di questo tipo di 500 (che è diverso da quello delle altre due versioni, la 500X e la normale 500). Domanda.
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Come si può anche solo ipotizzare che qualcun altro abbia fatto quelle riprese in un’auto in tutto e per tutto identica a quella della professoressa? Sarebbe insensato. E per quale motivo - se per assurdo le riprese le avessero fatte altri - la professoressa dovrebbe autoaccusarsi di qualcosa che non ha fatto, raccontando di aver scattato delle foto che la portano a rischiare (vedi intervista all’avvocato) una condanna fino a quattro anni di carcere? Infine: il modello della macchina ci aiuta a stabilire qualcosa anche su un altro aspetto decisivo per ipotizzare il reato per cui la professoressa é indagata: i vetri di quel tipo di auto (al contrario di altri, ad esempio nelle berline) non hanno una polarizzazione schermante.
Quindi, se avessero guardato nella macchina, non solo gli uomini della scorta, ma ancora di più Macini e Renzi, avrebbero potuto vedere donna mentre li riprendeva. Impossibile dire che fosse nascosta dunque. Ma se dunque sulla 500L non c’era possibilità di occultamento (e dunque di “fraudolenza”), è improbabile che si possano ravvisare gli estremi di un reato. Dice Renzi: “É possibile che due scorte non abbiamo notato la professoressa?”.
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La domanda, per avere una risposta, andrebbe rovesciata da un altro elemento della testimonianza: la professoressa - secondo quanto ha raccontato alla polizia - era già sul posto, arrivata per prima. Sono le scorte che hanno parcheggiato dopo, avvicinandosi alla Fiat. Ma cosa appariva ai loro occhi? Una figlia, con due genitori anziani, uno dei quali in palese difficoltà, che andavano su e giù per la toilette e per la stazione di servizio. Ci sarebbe voluta una grande immaginazione per ipotizzare quella presenza come una minaccia.
INQUADRATURE DIVERSE
Ed infine c’è l’ultimo mistero, che, anche in questo caso, mistero non é. Le immagini del dialogo tra Renzi e Mancini che tutti abbiamo visto (e che innondano la rete) provengono tutte dai servizi di Report: tuttavia, per essere adattate al mezzo televisivo, da quelle inquadrature è stata tagliata, per ovvi motivi la cornice: il motivo era semplice. All’epoca nessuno ancora sollevava dubbi sull’identità del professoressa, e Report si preoccupava solo di due elementi che per il programma erano vitali:
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1) Accertare e rendere visibile al pubblico la notizia, cioè la notizia e l’identità dei due uomini (ritagliando l’inquadratura per ingrandirla), e 2) duplicare le foto, per non rendere riconoscibile la fonte, e dunque preservarla. Un timore, come si capisce, più che fondato. È stata l’accusa di Renzi, dunque, a mettere in dubbio l’identità che i giornalisti del programma di inchiesta Rai sapevano essere vera e - in nome della deontologia professionale - preservavavano.
Per questo motivo, di fronte all’accusa per ignoti il pm ha deciso di forzare (e questo è l’ultimo capitolo della storia) il segreto professionale opposto da Sigfrido Ranucci. Siccome il magistrato poteva contare solo su due labili due indizi rivelati dal conduttore durante la puntata di Report (il contatto certo era avvenuto un mese e mezzo prima, la donna insegnava alle superiori), il magistrato ha acquisito i tabulati telefonici di Ranucci, ha delimitato tutte le chiamate di quel mese, e (incrociando tutti i database previdenziali di tutti i contatti!) con un lavoro certosino ha individuato tre di queste persone perché risultavano tutte dipendenti del ministero della pubblica istruzione.
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Nel Lazio c’era solo Valeria. Così la professoressa ha smesso di essere un fantasma ed è diventata una persona in carne e ossa. Ma adesso rischia di vedersi accollare - più per la campagna mediatica di Renzi, che per dei dati di fatto oggettivi - una ipotesi di reato e un rinvio a giudizio. Se c’è un giudice a Berlino, tuttavia, anche l’analisi che Tpi vi offre dovrebbe rendere evidente che non ci sono complotti o misteri. C’è solo una professoressa in una piazzola, con un padre malato.
E c’e un uomo potente che l’ha messa nel suo mirino, e parla di lei quasi tutti i giorni, sui giornali o in tv. Una guerra asimmetrica. L’ultima perla di Renzi, infatti, sono le due frasi che ha detto da Giletti: “Non ho denunciato la donna” per spiegare che non aveva nulla contro la professoressa (peccato che quel resto sia procedibile solo per querela di parte). Ma anche: “Sono parte civile nel processo” (per dire che vuole arrivare alla verità). E infine: “Io rifiutare il confronto proposto dalla difesa? È una balla spaziale dell’avvocato, Giletti!”. Il giorno dopo, invece Renzi, dice di voler accettare un interrogatorio con la professoressa davanti al Pm, se verrà chiamato. Un genio.