Giacomo Valtolina per il “Corriere della Sera – Edizione Milano”
mac della apple
Immaginate lo scenario più temuto da un qualsiasi cittadino privo di specifiche competenze informatiche: avere un computer, procedere con l'aggiornamento del software e ritrovarsi di colpo senza poter più collegare cavi, chiavette o archivi esterni.
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L'inevitabile passo successivo sarebbe di rivolgersi al produttore (nel caso specifico Apple e il suo modaiolo store in piazza del Liberty), affidando alle premure del colosso multinazionale l'intero patrimonio dei propri dati, privati e sensibili, lasciandosi rassicurare sulla risoluzione del problema, con diagnostica avviata e un preventivo fissato al di sotto del tetto di 560 euro più Iva (683,20 euro).
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La sorpresa arriva però alla riconsegna, quando il costo dell'intervento viene elevato al limite massimo, grazie al conteggio di interventi mai approvati come la sostituzione dello schermo.
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Una decisione unilaterale contestata, che provoca il diniego alla restituzione e una minaccia di distruzione del pc, con tanto di cinque responsabili a cercare di motivare un caso - per l'avvocato protagonista della vicenda - di «illegittima detenzione».
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A ordinare la restituzione del computer all'avvocato cassazionista Gaetano Braghò, ci ha pensato lunedì un dispositivo dell'Autorità giudiziaria che - in seguito al ricorso d'urgenza presentato il 24 giugno dal legale - con cui viene intimato alla Apple il sequestro giudiziario «inaudita altera parte» del MacBook Pro (n° di serie CO2VP2C3HV2Q) nominando come custode il suo legittimo proprietario.
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Orbene, è evidente che una quota quasi plenaria della clientela sottoposta al medesimo trattamento, avrebbe preferito pagare la cifra richiesta pur di riavere indietro il proprio portatile, senza alcuna volontà né capacità di avventurarsi nella spirale kafkiana di un costoso contenzioso legale complicato anche per un navigato azzeccagarbugli.
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Braghò ha infatti dovuto mettere in piedi una lunga trafila di contestazioni, per tutelare un diritto - suo, ma in astratto anche di migliaia di cittadini legati a doppio filo alle tecnologie del marchio della «Mela» -, con due ricorsi d'urgenza per la modalità commerciale usata (che ha risvolti sia civili sia e penali), un esposto al Garante della privacy per detenzione illegittima di dati sensibili, vedendosi negata dalla Apple anche un'istanza di conciliazione, come da policy della multinazionale.
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E a cui si è aggiunta, ieri, la denuncia tramite la polizia giudiziaria per la mancata - allo stato attuale - restituzione del pc. «Si tratta di prassi commerciali consolidate - spiega Braghò - che prese singolarmente mostrano piccoli numeri ma che sommate generano cifre molto importanti. Un meccanismo micidiale, una forma di estorsione che fa leva sulla bassissima percentuale di contenziosi intrapresi da parte dei clienti. E chi paga, di fatto, firma una liberatoria con cui rinuncia a ogni ulteriore contestazione».
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Non stupiranno infatti le modalità delle comunicazioni tra il servizio clienti della Apple e Braghò, con il legale costretto a inviare alcuni email di posta certificata (Pec) prima di essere ricontattato da un call center localizzato in Islanda, senza mai alcuna comunicazione scritta (salvo l'esito diagnostico inviato a un indirizzo email di un Id Apple inattivo da anni), in cui veniva ventilato il destino del computer in caso di mancato pagamento: la sua distruzione, senza alternative, neppure la consegna dei dati in altra forma, tramite un semplice back up.
«Io ne ho dovuta fare una questione di principio, ho pubblicizzato informazioni tecniche su quanto accaduto sui siti di recensioni, ma per i cittadini non avvocati l'unico modo è coinvolgere le associazioni dei consumatori. Intanto io è da maggio che sono senza i dati di 23 anni di archivio, non ho ancora rivisto il mio pc, anzi ne ho dovuto comprare un altro. Peraltro, per compatibilità, mio malgrado, è ancora un Mac...».