Filippo Facci per "Libero quotidiano"
scala milano
Che tremino le mani. Che tremino ogni volta che sfiorino l'immortale che ci sopravviverà, e a cui opporremo vanamente i nostri sforzi di trasfigurazione e addirittura - signore, perdonaci - «attualizzazione», rivolti a un pubblico che tanto non ci capisce niente. C'è un solo modo per prendere gli applausi di questo pubblico, quando non applauda in automatico: tradire l'opera. Ecco, noi temiamo questo. Per via di qualche indizio.
MACBETH
Le mani già tremavano, figurarsi, nel tradurre Shakespeare in italiano: ma sia benedetta Giustina Renier Michiel, che oggi chiameremmo animatrice di salotti, ma che nel 1798 traduceva magnificamente Macbeth e pure l'Otello. Dovevano tremare, le mani, anche a Francesco Maria Piave, che stese il primo libretto del Macbeth operistico ma a cui tremarono poi anche di rabbia, perché un bel giorno Verdi gli riapparve in compagnia del magnifico poeta Andrea Maffei (molto i ispirato, fresco vedovo, futuro senatore) che gli strappò il libretto e lo revisionò per intero, restituendo un po' di fedeltà al testo originale e alzando l'asticella della velleità drammaturgica, col risultato di far incazzare Francesco Maria Piave con un modus pochissimo drammaturgico.
FILIPPO FACCI
Il libretto infine uscì anonimo, anche se oggi riporta il nome di entrambi. Le mani tremano anche a noi, che verdiani non siamo, ma shakesperiani sì: noi che leggiamo ovunque di un Macbeth come migliore delle «tre opere giovanili» quando - a parte che le opere giovanili furono dieci, Nabucco compreso - di giovanile, questa sera, dovrebbe esserci poco, anche perché Riccardo Chailly ha scelto la versione ampiamente rivista del 1865 (con Verdi 52enne, mentre nella prima versione ne aveva 34) peraltro filtrata dalla recente versione critica di David Lawson, ma reintegrata con la morte di Macbeth della primissima versione, versione che, quella del 1865, fu rappresentata in italiano solo nel 1874 con Verdi 61enne (giovanile, la chiamano) dopo che nel 1865, si diceva, Macbeth era stata stuprata per rappresentarla in francese a Parigi.
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Insomma, un casino. La versione di questa sera, in sostanza, è più moderna: ha novità tra le quali un «ballo» strumentale irrinunciabile e altri dettagli che svecchiano l'opera allontanandola seppur timidamente dal concetto di lunga «serie di pezzi chiusi».
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Wagner è ancora lontano, ma il presagio del suo dramma musicale stava già per spianare l'Europa col suo fluire unico della sinfonia continua e perfetta, ciò che esploderà nell'Otello verdiano con le sue transizioni impeccabili e rielaborazioni continue del materiale tematico: non i zumpappà che vellicano ancor oggi le orecchie regredite del verdiano milanese.
MACBETH BY LIVERMORE ALLA SCALA
LO SCINTILLIO DI CHAILLY C'è ben altro però che dovrebbe far tremare le mani: perché la formidabile capacità di Chailly di far scintillare le sue orchestre (amammo i suoi Shostakovic minori, che lui rieducò a una sobrietà occidentale ma non teutonica, al pari dei suoi inarrivabili Respighi) dovrà scontrarsi, questa facilità di scintillìo, con la volontà dello stesso Verdi che per quest' opera pretese colori orchestrali declinati a gravità e cupezze che sono l'antitesi del belcantismo all'italiana (per dirla malissimo) ma che forse non vanno nella direzione delle rinnovate capacità degli orchestrali scaligeri, ossia il più grande miracolo di Chailly.
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Questi orchestrali sono a tal punto migliorati e connotati, contraddistinti da un'acquisita personalità di suono, che in teoria, ora, dovrebbero - nelle pretese verdiane dover disfare e ricomporre quel tessuto faticosamente ordito che è oggi il loro suono: sarebbe stato come chiedere ai Berliner degli anni Settanta di disimparare la morbidezza costruita giorno per giorno da Karajan.
Non è possibile: dunque si poteva tentare di pretenderlo perlomeno dai cantanti, ai quali Verdi, ancora, chiese tinte e colori 1 che non sappiamo neppure se gli interpreti di questa sera abbiano sulla loro tavolozza. Fortuna che la superstar Anna Netrebko è abbonata all'ovazione automatica: altrimenti dubiteremmo (parecchio) che questa urlatrice cresciuta da Valery Gergiev possa mostrare, come non ha mai fatto, i registri e le prosodie necessarie per essere credibile nel ruolo dell'inarrivabile bastarda Lady Macbeth.
livermore chailly
Ci intimorisce anche il mostro di bravura Luca Salsi, ossia il Macbeth che lui in un'intervista ha definito «un povero idiota». Non era un povero idiota. Va a finire che Salsi lo ritrasforma in uno Scarpia pucciniano, come nel 2019. A farci tremare le mani definitivamente è il timore che a sovrastare ogni interpretazione, lontanissimo da Shakespeare e dalla Scozia del 1300, possa essere la disgraziata idea del regista Davide Livermore (che adorammo nella Tosca) di traslare Macbeth al al presente contemporaneo, traducendola brutalità del basso medioevo in qualcosa - ha detto Livermore - in un'opera che faccia «riflettere sulla responsabilità della politica e sui diritti cittadini». Livermore ha detto che «vuole parlare del presente». Ed è finita. Ci tremano le mani.
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