Maria Giovanna Maglie per Dagospia
statua di cristoforo colombo vandalizzata a detroit
Cronache marziane dagli States, che oggi è tutto e soltanto un parlare di Harvey l'uragano, che sta tra Forza 2 Forza 3, e i texani delle coste scappano verso il nord, restano pochi coraggiosi muniti di sacchi di sabbia e fondamenta rafforzate. Per Donald Trump è il primo grande evento naturale di disgrazia, tocca a tutti i presidenti, ma rischia di sembrare niente rispetto al clima che si respira a Washington da quando è stato eletto.
CRISTOFORO COLOMBO
Nel nuovo sport nazionale di abbattimento delle statue che non rispondono ai criteri del terrorismo politically correct, pare sia cascato anche un monumento al povero Italo Balbo. Fascista fascista, bene, giusto, direbbe la Boldrini. Finiti nel tritacarne obamiano, gli italiani d'America cominciano ad arrabbiarsi un po'. Ieri hanno fatto una manifestazione al famoso Columbus Circle di New York dove c'è la statua del navigatore genovese, diventato esempio di strage dei poveri nativi.
columbus day proteste cristoforo colombo era uno sterminatore 8
Ma Cristoforo Colombo ha aperto l’era dei grandi diritti civili, difficile attribuirgli oggi colpe terribili, a meno di non ritornarsene tutti a casa, nella Patria matrigna in cui erano perseguitati, qualche volta non solo per nobili ragioni, e lasciargli la loro di patria ai native americans, non senza prima essersi fatti restituire tutti gli specchietti e le collanine. Scherzi a parte, Cristoforo Colombo è il patrono è il rappresentante degli italiani d'America. Speriamo che alzino la voce contro il delirio dei talebani americani. Intanto un po' di cronache marziane.
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ITALO BALBO
“Trump ha già perso la presidenza” “L'impeachment più vicino”. “I rabbini americani boicottano Trump”. “Perché l'America è già stanca di Trump”. Da dove prendono queste notizie fantasiose i giornalisti italiani? Ma che domande, dai soliti vecchi amici democratici che anche se gli anni passano sono evergreen. In comune con i democratici italiani hanno una faccia tosta che metà basterebbe.
bradley cooper con nancy e paul pelosi
Come Nancy Pelosi, che ormai di anni ne ha 77, leader della minoranza Democratica alla Camera, la quale dichiara che i democratici quest'anno hanno vinto tutte le battaglie. Purtroppo non sono stati ancora in grado di capitalizzare questo vantaggio schiacciante, ma basta avere un po' di pazienza.
La signora, che negli ultimi tempi è stata più volte beccata in evidente stato confusionale anche sulla sua identità, ci va giù pesante. Anche perché l'intervistatore la aiuta quando le dice che “Il partito repubblicano ormai è al disarmo è allo sbando, crisi dopo crisi, ciò nonostante il Partito Democratico non sembra essere stato ancora in grado di capitalizzare i problemi che ha l'altro partito”.
Dice allora la Pelosi: sì, abbiamo vinto tutte le battaglie. I numeri del Presidente sono di un gradimento bassissimo, sotto il 40%. Sta facendo tutto da solo. Gli americani vedono che non condivide i loro valori. Perciò anche quelli che lo hanno votato ci stanno ripensando”.
Barack Obama e Nancy Pelosi
L'intervista passa poi alle elezioni di meta’ mandato di novembre del 2018 e sulla possibilità per i democratici di riprendersi la maggioranza al Congresso. Solo che è una bella conversazione tra pazzi o tra gente in malafede, visto che ci sono state nel 2017 quattro elezioni speciali indette per sostituire eletti chiamati a lavorare nell'amministrazione come membri del governo, che i democratici hanno speso circa decine di milioni di dollari per queste quattro elezioni che si sono tenute in Georgia, South Carolina, Kansas e Montana, e che le hanno perse tutte e quattro.
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Il direttore del vostro giornale vi ammonisce di essere un po' più cronisti e un po' meno opinionisti faziosi quando si tratta di Donald Trump? Ditelo pure a noi, che siamo il New York Times, già voce di tutte le notizie che è giusto stampare, oggi voce di tutte le spiate che è giusto spiare, ci pensiamo noi a sputtanarlo.
donald trump west virginia
Così al Times, e solo il giorno dopo al Washington Post, con suo grande disdoro, è arrivata la soffiata da giornalisti antitrumpiani incazzati del Wall Street Journal. Gerard Baker, editor in chief del Journal, sarebbe in difficoltà secondo il Times perché i suoi redattori non sono contenti degli ordini e della gestione dell'informazione su Trump, che ritengono priva di verve e di durezza.
Oppure, al contrario Baker non intende sopportare la faziosità di informazione sul presidente degli Stati Uniti, come sarebbe accaduto proprio per la copertura del comizio in Arizona a Phoenix di martedì scorso, a proposito del quale Baker ha scritto una serie di email di richiamo, puntualmente recapitate al New York Times. ”Mi dispiace dovervelo dire, ma questo è un commento travestito da cronaca”’, e più tardi “Sareste così gentili da attenervi al racconto di quel che è accaduto e di quel che lui ha detto, invece di impacchettare il tutto in esegesi e critica selettiva?”
il direttore del the wall street journal, gerard baker
Nel testo che non è piaciuto al direttore c'era scritto che il discorso di Phoenix segnava un ritorno allo stile arrabbiato della campagna elettorale, e che il presidente si era già allontanato e distanziato dai toni di solenne richiamo all'unità utilizzati giorno precedente durante il discorso sull' Afghanistan.
A commento del polverone sollevato dal New York Times, un portavoce del Wall Street Journal si è limitato a rispondere con una breve dichiarazione nella quale si ribadisce che “il giornale utilizza una stretta e chiara separazione tra notizie e opinioni. Come sempre la priorità è quella di concentrarsi sul riportare i fatti ed evitare di propalare opinioni in articoli di cronaca”.
Ma la diatriba è più antica. Nel mese di febbraio Baker aveva riunito la redazione e non solo respinto qualunque accusa di essere troppo morbido verso Donald Trump, ma ribaltato le accuse sulla redazione In soldoni, aveva detto: gli altri giornali hanno abbandonato qualunque residuo di obiettività nel seguire il nuovo presidente, noi non lo faremo, se non vi sta bene vi incoraggio a cercare lavoro altrove.
i direttori del the new york times, dean baquet, e del the wall street journal, gerard baker insieme ad andrea ceccherini
Da allora è tutto un fiorire di leaks, come quello spifferato un mese fa a Politico sull'intervista al Journal del presidente. A quella intervista non ha partecipato solamente un gruppo di giornalisti scelto, ma anche Gerard Baker, il quale a margine dell'intervista avrebbe fatto due chiacchiere sui viaggi e sul golf con Trump. Scandalo scandalo, addirittura a un certo punto Ivanka si è affacciata sulla porta dell'Ufficio Ovale, e nel salutarla il direttore del Journal ha ricordato che si erano incontrati a una festa agli Hamptons due settimane prima.
Ora, il Wall Street Journal è di proprietà di Rupert Murdoch, amico personale della famiglia Trump, che viene invitato alla Casa Bianca. Ma nessuno finora si era permesso di insinuare che una pubblicazione come il Journal possa essere pesantemente influenzata nei contenuti e nelle scelte dal desiderio di compiacere Donald Trump.
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Il signor Marcus Lemonis, proprietario e presidente di Camping world, durante una intervista a CNBC con grande sicumera a domanda sul presidente commenta che “non c'è dubbio che pochi consumatori siano d'accordo con lui e con quello che ha detto di recente, e se invece lo sono, francamente li invito a smettere di fare acquisti presso la mia azienda.. sono frasi che si dicono, anzi che si devono dire per fare i fichi in questo momento negli Stati Uniti.
MARCUS LEMONIS
Solo che è capitato che le ascoltasse Mark Martin, vecchio sostenitore di Trump e pilota automobilistico leggendario, il quale ha deciso di pubblicare su Twitter la sua decisione di cancellare un'ordinazione a Camping World di 150.000 dollari. Non solo, l'ha accompagnata a una sorta di appello, pubblicando tutte le dichiarazioni di Lemonis e spiegando che la politica dovrebbe restare fuori da queste cose.
Panico, panico, il guascone proprietario di Camping World se la fa sotto e comincia a cercare Martin per scusarsi e rimediare. Si scherza, che diamine. Martin prende le scuse per buone, ripristina l'ordine, i due decidono di prendersela con l'emittente televisiva che avrebbe messo in contesto sbagliato le dichiarazioni di Lemonis. Ma l'emittente ha esibito registrazione.
Finisce con considerazione salomonica e ipocrita sempre via Twitter. @marcuslemonis and I agree we are both sick of the fighting in our country. Marcus Lemonis e io siamo tutti e due stanchi degli scontri nel nostro Paese. Meglio avrebbero fatto a scrivere Lemonis ed io sappiamo che business is business e il signor Camping World certe stronzate in Tv non le dirà mai più.
MARCUS LEMONIS ERA ANCHE APPARSO IN UNA PUNTATA DI CELEBRITY APPRENTICE DI TRUMP