Alessandra Mammì per Dagospia
Dopo “Le vite degli altri” il pluripremiato e altissimo Florian Henckel von Donnersmarck ( 2 metri e 10 di suo, più altri 15 centimetri di ricciola criniera) torna per raccontarci la vita del più grande pittore vivente: il tedesco Gerhard Richter.
OPERA SENZA AUTORE
Anche se in questo film “Opera senza autore” in sala dal 4 ottobre, lo chiama Kurt Barnert, anche se la biopic si allarga a romanzo d’amore, d’orrori e di guerra, anche se personaggi chiaramente riconoscibili si mescolano ad altri di pura invenzione, questa è comunque la vita di Richter più fedele alla realtà di quanto forse immaginiamo.
OPERA SENZA AUTORE
Richter non ha fama di essere un tipo friendly. Detesta, è noto, ogni esposizione mediatica. Si nega persino a una normale intervista. Vive rintanato “tutto casa e bottega”. Che il nostro regista, abbia potuto usare opere e brani della sua vita senza il suo consenso è da escludere.
Perché Richter oltre ad essere il miglior pittore vivente, il Picasso del XXI secolo, il visivo simbolo della Germania a cui è permesso esporre nel Reichstag, è anche un uomo ricchissimo e potente.
opera senza autore
Non sarebbero certo bastati i ringraziamenti nei titoli di coda a placare la sua irritazione se il film fosse stato girato senza consenso.
Ma evidentemente in questa storia si è riconosciuto. Così come lo abbiamo riconosciuto noi. Perché “Opera senza autore” al di là di una veste da feuilleton ( ci sono belle fanciulle, il nazista cattivo che si ricicla in comunista ma resta cattivo, la storia d’amore ostacolata, povertà e ricchezza, passione, delirio follia e persino suspence….) che rende godibili le tre ore di proiezione grazie all’accurata ricerca di scene e costumi, l’eccellente prova degli attori e quel tema irresistibile che ci racconta con impeto romantico le pagine più dense e plumbee del nostro Novecento, nasconde un attento racconto sull’arte e sull’Europa.
opera senza autore
La storia di Richter/Barnert è la ricerca di un artista che non rinuncia alla pittura neanche nei momenti del radicale azzeramento a favore del gesto, della performance, dell’astrattismo più puro. Barnert (interpretato dal giovane e bravissimo Tom Schilling) è pittore. Ha imparato ad esserlo fin da piccolo a Dresda dove è nato, si è perfezionato all’insegnamento del realismo socialista ed è anche diventato uno dei più dotati muralisti della Germania Est ( tutto questo è puro Richter).
Dunque alla pittura non intende rinunciare e lo afferma con sguardo turchino profondo e malinconico (che è davvero lo stesso di Richter) anche di fronte al gran maestro Beuys che aveva la cattedra di scultura monumentale all’accademia di Dusseldorf, materia che lui trasforma in scultura sociale rivoluzionando per sempre l’idea stessa di arte.
opera senza autore
Certo qui Beuys somiglia poco all’originale. Di Beuys il nostro alias ha cappello, gilet e zampa di lepre appesa al taschino, ma non quel bellissimo volto ispirato, sospeso, intenso. Né quell’andatura quasi astratta. Eppure le cose che dice il Beuys di Florian Henckel von Donnersmarck sono credibili. Soprattutto quando di fronte agli inutili esercizi di maniera e avanguardia del giovane allievo che scopiazzano Fontana o il gruppo Gutaj speiga che l’arte per essere vera deve partire dal trauma.
E di certo a Barnert/ Richter i traumi non mancano. Non solo quelli romanzati nel film ma anche quelli che la storia ha regalato a un tedesco nato a Dresda bambino sotto il bombardamento che distrusse la città ( e Barnert è un po’ più giovane perché Richter in realtà aveva già 13 anni ) cresciuto nell’Est sotto l’ideologia sovietica.
A un giovane che scappa all’Ovest a pochi mesi dalla costruzione del muro ma si sente straniero in terra patria. A un artista che scopre le neoavanguardie e cade in uno sconcerto che gli fa perdere il senso di sé e la vocazione e infino al ritorno a quella che sarà la più potente immagine che la Germania produce recuperando la sua storia, catturando la cronaca nel grigio e nero di una pittura che la rende eterna.
florian henckel von donnersmarck
Nessun quadro di Richter ci lascia indifferente, ma è certo che quei suoi primi dove contro ogni moda che arrivava oltre atlantico, dove lontano dalla Pop Art, dal minimalismo e dall’euforica cultura dei vincitori anglofoni lui ha il coraggio di parlare di nuovo di Heimat, di volti tedeschi, di Ostalghia e di realtà.
Lo fa senza enfasi, senza ideologia, dalla parte dei vinti che con schiena dritta vogliono recuperare la loro dignità. Lo fa ammantando le immagini di nebbia, le fa trasparire dalla memoria ma per la prima volta (siamo nei primi anni Sessanta) torna a parlare d’Europa.
E mai come in questo momento se ne sente il bisogno, anche ( forse meglio ) in un film romantico zeppo d’amore e passione, che sarà forse cinematograficamente banale (e a Venezia è stato anche aspramente criticato) ma, miracolo, pur raccontando la vera storia di un pittore non facile, sa arrivare a cuori anche lontani dall’arte.
florian henckel von donnersmarck sul set di opera senza autore