Dagoreport
università la sapienza di roma
Non può stupire che quest’anno manchino all'appello almeno 10 mila nuovi studenti universitari. A parte il Covid, le ragioni vanno cercate nel senso di inutilità che parte dell’università italiana trasmette.
I figli delle famiglie molto benestanti (anche quelli dei giornalisti che invitano a iscriversi in Italia) vengono fatti studiare all’estero per favorirne l’ingresso sul mercato globale del lavoro a ottimi livelli: vanno così a creare quel mondo di apolidi internazionali ricchi e disimpegnati nei confronti delle proprie origini territoriali e ancestrali che tanto piace alla “rete”.
A parte le facoltà di Ingegneria e alcune di Economia e Informatica, gli altri finiscono per essere iscritti a lauree di nessun valore per quanto riguarda il percorso breve triennale (mal coordinato anche con gli ordini professionali) e di scarsa validità per il mondo professionale anche quelle magistrali, ovvero quinquennali.
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L’aspetto di scollamento più grave riguarda le ex lauree storico-umanistiche, trasformate per un ingenuo abbaglio del Ministero (Scienze della comunicazione, Scienze dei Beni culturali…), le lauree relative a quelli che in realtà sono arti e mestieri (Architettura, Scienze gastronomiche…) e quelle di pseudo scienze, come le definiva l’epistemologo Karl R. Popper, ovvero una serie di discipline che si basano su autoreferenziali metodi di validità intersoggettiva ma che Scienze vere e proprie non sono (Psicologia, Scienze politiche, varie declinazioni delle Sociologie, Scienze del costume e della moda…).
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In tutte queste il senso di inutilità è trasmesso non solo dalla scarsa ricezione del mondo del lavoro (che spesso procede per familismo e raccomandazioni demotivando a studiare), ma anche dal profilo dei docenti dei quali si comprende tangibilmente la provenienza da oscure e discutibili (quando non illegali) camarille e cabale universitarie (un cursus honorum dettato dal servilismo e dall’appartenenza) e la loro totale distanza dal reale mondo delle professioni e della vita.
Non essendo né maestri (non è nemmeno chiesto loro dall’assetto accademico) né grandi professionisti, i ragazzi e le famiglie colgono la sostanziale fragilità e inutilità di figure di “piccoli ricercatori” che vorrebbero formare ancora più piccoli ricercatori a spese dello Stato in discipline non fondamentali (quanti storici della moda o dei processi comunicativi serviranno a una Nazione?).
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È evidente che, per invertire il trend in questi settori vanno completamente modificate sia le sconclusionate “ambizioni scientiste” di queste discipline che le modalità di selezione del corpo docente.
Le prime dovrebbero tornare ad essere mestieri qualificatissimi e non pseudo-scienze; i secondi devono essere grandi maestri che si sono dimostrati capaci di ottenere risultati professionali nella vita (e che offrono esempio ai giovani) e/o grandi professionisti che si sono dimostrati anche in grado di fare ricerca. Naturalmente selezionati con nuovi metodi più simili a quelli dell’Afam e totalmente diversi da quelli dell’Anvur, certamente non per baronie trasversali.
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