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    MARCO GIUSTI INTERVISTA LUCA GUADAGNINO SU ''WE ARE WHO WE ARE'', AL DEBUTTO SU SKY - ''LA MIA ARTE È FAR SEMBRARE IMPROVVISATA UNA SERIE ULTRA-SCRITTA. IO FATICO A FARE CINEMA, IL MIO PIANO ERA DI ESSERE UNA CASALINGA, CHE AVEVA UNA CASA STUPENDA TIPO MARIA ANGIOLILLO. I PERSONAGGI DELLA SERIE NON SONO PERSONAGGI, SAREBBE UNA NOIA MORTALE. IL CINEMA NON È REALTÀ, MA SERVE PER ARRIVARE ALLA REALTÀ''


     
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    We Are Who We Are è una serie Sky Original coprodotta da Sky e HBO; Luca Guadagnino ne è showrunner, produttore esecutivo, sceneggiatore e regista; la serie è prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment con Wildside, entrambe del gruppo Fremantle, e Small Forward. Inizia stasera alle 21.15 su Sky Atlantic (episodi disponibili anche on demand e in streaming su NOW TV)

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    Marco Giusti per Dagospia

     

    Preparatevi, perché “We Are Who We Are” di Luca Guadagnino, scritta con Paolo Giordano e Francesca Manieri, è qualcosa che non avete mai visto. Un racconto di amore, amicizia, crescita, fluidità, morte ambientato in una base americana in Veneto ai tempi della prima elezione di Trump.

     

    Un racconto che coinvolge un gruppo di ragazzi e i loro genitori. Da una parte c’è Fraser, Jack Dylan Grazer, figlio della nuova comandante del campo, Sarah, Chloë Sevigny, lesbica e sposata con la dottoressa brasiliana Maggie, Alice Braga, da un’altra c’è Caitlin, Jordan Kristine Seamon, figlia del duro ufficiale nero trumiano Richard, Kid Culi, sposata con la nigeriana Jenny, Faith Alabi, che ha già un figlio, Danny, Spence Moore. E poi ci sono gli altri ragazzi, americani e italiani.

     

    Nessuno sa esattamente chi è. Fraser non sta bene nella sua pelle, Sarah vorrebbe diventare un militare maschio, come il padre, Danny vuole diventare musulmano. Guadagnino torna al modello di “Chiamami col tuo nome” con un racconto che coinvolge l’America e i ragazzi di oggi, che racconta un “proprio qui, propria ora”, come spiegano i titoli di ogni puntata, che ne svela l’urgenza e la contemporaneità. Ma tutto questo è anche una grande lezione di cinema. 

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    Fraser è in guerra contro i sentimenti “usa e getta”, anche contro gli abiti “usa e getta”. Esattamente a cosa si riferisce?

     

    Lui crede che le persone intorno a lui, anche quelle che ha conosciuto e conosce, non si rendano conto di vivere agite da un sistema di segni a basso costo e non completamente connesse con se stessi. Quando dice questa frase a Caitlin pensa che il sentimento “usa e getta” faccia parte di un supermercato delle cose, come se fosse stato già tutto preordinato e deciso per te. In questo senso, quella di Fraser, è una risposta molto etica. Molte persone dicono che Fraser è antipatico. Io non lo trovo antipatico, però forse è antipatico proprio perché dice una frase del genere. Ma quando vedo delle persone che esprimono dei sentimenti quasi come una forma di recita, penso che Fraser abbia ragione.

     

    C’è un po’ di te in Fraser?

     

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    Un po’… Fraser nasce, come personaggio, modellato sul figlio di Ted Hope, capo di Amazon per diversi anni, ma anche un grande produttore cinematografico. Lui ha questo ragazzo, suo figlio, si chiama Mike The Ruler, che è una star di Instagram e a 14 anni ha cominciato a vestirsi in maniera sempre più eccentrica e i brand se lo sono tirato di qua e di là perché pensavano che era uno che faceva trend. In realtà a lui interessava proprio il codice tribale dei vestiti, colleziona vestiti d’epoca ’80 e ’90. Da lì siamo partiti con gli sceneggiatori. Non so se Fraser sia me, lui mi sembra che appartenga a un universo di ultrasofisticatezza del contemporaneo, mentre io sono anni ’80, sono una vecchia. D’altro lato Fraser è una persona che non giudica nessuno…

     

    Ma è in grado di smuovere gli altri…

     

    Sì. E’ catalizzatore e anche maieuta. In qualche modo mi ci sento anche io, sia catalizzatore che maieuta. Catalizzatore lo devi essere per forza in quanto regista, ma anche maieuta, perché se non tiri fuori dagli altri qualche cosa, poi cosa hai? Delle brutte scene e dei brutti film come quelli che vediamo ogni giorno.

     

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    Anche il personaggio di Elio in ”Chiamami col tuo nome” era così?

     

    Elio è un ragazzino nella prima parte di “Chiamami col tuo nome”, ha sicuramente una curiosità personale molto forte, vuole conoscere e contemporaneamente quello che scopre lo vuole comunicare, al punto che smuove negli altri qualcosa, come nel caso di Oliver. Quando qualcuno dice che il film racconta una relazione asincrona in cui c’è un uomo adulto che va verso un ragazzino, non ha capito il film, perché l’agente del movimento è il sedicenne nei confronti del ventiquattrenne. 

     

    In questo caso c’è una coppia maschio-femmina…

     

    Che forse è la coppia più scandalosa oggi. Come diceva Leos Carax in “Boy Meets Girl”. E oggi nel 2020 è potenzialmente una delle cose più scandalose e più eretiche che si possano fare.

     

    La serie inizia presentandoci prima una coppia di due donne formata da Chloe Sevigny e Alice Braga

     

    …che sono l’elemento mainstream…

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    …poi una coppia nera fatta da una nigeriana e un nero americano trumpiano…

     

    … non è una nostra forzatura…

     

    E questi due ragazzini, Fraser e Caitlin, che si specchiano l’uno nell’altro in una ricerca di identità

     

    Si proteggono, si cercano e si aiutano a vicenda. All’inizio sembra che Fraser sia colui che guida e indicizza il percorso di Caitlin nel suo tentativo di pensarsi altro da quello che lei è, un maschio invece che una femmina, di nominarsi transgender. In realtà è anche lei la guida di lui, perché con la sua calma e con la sua capacità di riflessione lo aiuta la essere più disciplinato nella sua ricerca di se stesso nel mondo.

    Senza voler dire banalità è vero che ogni personaggio che rappresenti sei tu. Io posso dire che ho un affetto molto profondo per Fraser e penso che se fosse reale sarei molto amico suo.

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    Dici che saresti una specie di Raf Simons per lui…

     

    Fraser mi ammirerebbe. E credo che gli piacerebbe molto più “Suspiria” di “Chiamami col tuo nome”. Visto che il film si svolge nel 2016 avevamo pensato di mandarlo a vedere “A Bigger Splash”. Poi abbiamo pensato, no, too much. Francesca Manieri mi ha freddato, "Sai se ti piacciono queste cose autoriflessive"… No, non mi piacciono.

     

    Tutti questi omaggi a Maurice Pialat che fai nella serie, la base militare si chiama “Maurizio Pialati”, non sono un po’ forzate… Perché hai bisogno di questi due totem, Pialat e Bertolucci…

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    Lì sbagli di grosso. Perché sei snobbettone peggio di Fraser. Tu sei Fraser in realtà e chi è entrato nel tuo studio lo capirebbe subito. Perché primo dovevamo dare un nome a questa base e il nome doveva essere per forza finto perché se c’è un nome che esiste veramente non lo puoi usare. Finto per finto dò il nome di un regista che mi piace. Secondo, la serie è stata girata da tre direttori della fotografia. Prima è arrivato Fredrick Wenzel che ha fatto i film di Ruben Ostlund, poi c’è stato alcune settimane Massimiliano Kuveiller, bravissimo e poi è arrivato Yorick Le Saux che ha fatto con me “A Bigger Splash”, “Io sono l’amore”, ma anche “Carlos” di Assayas. Quando è arrivato Yorick che è snobbisimo, supersofisticato, parigino, ha visto la scritta di Pialat, ha mandato la foto a Sylvie Pialat, la vedova del regista, che è la depositaria dell’eredità spirituale di Maurice. Lei ha risposto: ho la pelle d’oca, vado subito al cimitero a parlare a Maurice di questa straordinario omaggio che ha ricevuto. Ringrazia Luca. Quindi tu sei fuori strada. 

     

    Ma la domanda è perché hai bisogno di confrontarti con questi padri, non sei grande abbastanza?

     

    Sai, in primo luogo non è che avere un confronto con i propri padri necessariamente voglia dire abdicare al proprio essere adulti, tanto è vero che Bernardo aveva un rapporto molto profondo col suo di padre, che era Attilio Bertolucci, fino alla fine e anche oltre la morte di Attilio. Rispetto ai padri spirituali, io non credo che il pensare il cinema nella dialettica col cinema che uno ama sia un abiurare alle proprie responsabilità di cineasta o avere un sentimento d’inferiorità rispetto ai modelli. E penso che non continuare a ritornare sui modelli sia un errore perché il cinema è un’arte che non ha niente a che vedere con l’originalità né tanto meno ha a che vedere con uno sforzo prometeico, penso che il cinema sia un’arte molto sofisticata e molto basata sulla “mise en abyme” del cinema stesso, sulla riflessione della riflessione sul cinema.

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    Bernardo poco prima di morire, intervistato da Variety su “Chiamami col tuo nome”, disse “Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà”. E aveva ragione e ha ragione. Quindi… avere bisogno di una dialettica interna con i propri padri, i propri maestri non penso sia una forma di infantilismo, al contrario.

     

    Ovviamente non sembra un film italiano…

     

    E’ un film profondamente italiano, anche perché è fatto al 90 per cento da italiani, parte di cast, molti soldi italiani, anche soldi pubblici. 

     

    Però non ha praticamente niente di italiano a parte qualche attore, il nipote di Bud Spencer, e qualche debuttante. 

     

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    Tu confondi l’Italia con il cinema italiano. Non è che se io dico adesso che il cinema italiano non ha la potenza di raccontare la realtà italiana sono per forza uno stronzo che dice una cosa cattiva nei confronti di un’industria del paese in cui vive. Sono pochi i film che appartengono al centro dell’industria cinematografica italiana che guardino alla realtà italiana e in grado di trasfigurarla in forma di linguaggio cinematografico, no? E’ proprio una vocazione specifica di abiurare a quella possibilità. E’ stata scelta questa cosa, è stata applicata e perseguita. Per questo io non penso che dire che manca l’Italia nel mio film sia vero, si può dire che forse manca una prospettiva che potrebbe essere ricondotta al cinema italiano contemporaneo, non perché io sia più figo, ma perché non è il modello a cui io posso tornare. Sinceramente.

     

    E’ un film che si apre al mondo, sulla contemporaneità e sul superamento di qualsiasi barriera padre-figlio, maschio-femmina. Mi sembra una carica positiva…

     

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    Perché io penso che di fronte alla possibilità che qualcosa di non pensato sia in realtà pensabile, qualcosa di impossibile sia in realtà possibile mi esalto e mi eccito e penso che la storia, i personaggi, gli attori con cui abbiamo lavorato io, Paolo Giordano e Francesca Manieri, ci abbiano permesso questa laicità. Forse questo è il mio lavoro più laico, dove quello che dici tu – ogni interazione è possibile e non esiste nessuna forma di chiusura a nulla – è la cosa più rotondamente compiuta del mio lavoro, Altre volte era più conflittuale, altre volte più regressivo, altre volte più idilliaco, Qui c’è il conflitto, ma il conflitto è laico, c’è l’idillio, ma l’idillio è pragmatico… 

     

    Sembra anche che tutti i personaggi cerchino di oltrepassare i propri limiti, ad esempio il personaggio di Jonathan, il sergente ebreo, che legge Jonathan Littel…

     

    Più che oltrepassare i propri limiti… noi non sappiamo se Jonathan, che è l’assistente di Sarah, la mamma di Fraser, abbia bisogno di leggere Jonathan Littel per superare un limite. Sono personaggi laici, non ritengono che avendo un’identità sia preclusa per quel tipo di identità che hanno, la contaminazione con tante altre identità.

     

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    Che è un po’ come sono io. Cioè, quando tu pensi che a New York oggi non puoi mettere in scena “La morte di Klinghoffer” di John Adams, opera lirica, perché è un’opera che nell’establishment culturale americana è bersagliatissima perché dà voce ai terroristi palestinesi dell’Achille Lauro, infatti l’ultima volta che venne messa in scena al Met furono fatte delle proteste selvagge impedendo quasi al pubblico di entrare in sala, io la penso come John Adams, che chiama a scrivere il libretto di quest’opera Alice Goodman, che è una grande poetessa ebrea convertita dopo all’anglicanesimo.

     

    Perché Jonathan, il soldato ebreo deve avere un limite e non essere curioso rispetto allo studio di un nazista terminale come quello del romanzo di Jonathan Littel e in questa provocazione che lui fa a Fraser si vede tutta la seduzione di essere completamente laici, aperti? Fraser prende questo libro e lo legge avidamente perché vuole capire Jonathan, fa un ipertesto e scopre il mondo della critica letteraria, infatti scopre Michiko Kakutani che è la grande critica che scrive sul NYT. In questo senso se il film vuole dirci qualcosa è che bisogna essere aperti e aprirsi aprirsi aprirsi. Anche a rischio di bruciarsi.

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    C’è una bella citazione di Karl Lagerfeld a un certo punto sul dover vivere nel contemporaneo …

     

    Lagerfeld è un sintomo della contemporaneità. Noi non sappiamo cosa pensa Fraser di Lagerfeld, non lo cita neanche, lui lo sta guardando, è interessato a sentire cosa dice questo signore coi capelli bianchi. Magari lo scopriremo nella seconda stagione. Certo è che Fraser a differenza di Lagerfeld è una persona che non è solo interessato alle novità e al dominio sul contemporaneo, ma è proprio interessato all’agente del cambio. Infatti in quella scena lui riceve l’invito di Jonathan a passare il weekend insieme e la cosa che gli darà davvero felicità.

     

    Tutto si svolge durante la prima elezione Trump. Adesso tutto questo diventa attuale, anche se la serie è stata scritta tre, quattro anni fa…

     

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    Noi abbiamo scritto la serie con Paolo e Francesca nel 2017, quindi pochi mesi dopo l’elezione di Trump. Loro hanno cominciato a mettere le mani sulla sceneggiatura alla fine del 17 e nel 18, ormai erano due anni di Trump, era già successo Charlottesville, diciamo che era stato cancellato il patto di convivenza civile di Obama e l’America era stata polarizzata. L’idea iniziale era: se fai una cosa sul contemporaneo non puoi farla in una sorta di astratto contemporaneo, devi dargli una prospettiva. Quest’idea di astrazione, che il cinema è un luogo dove la realtà non esiste, come si fa in tanto cinema italiano, mi ha sempre affaticato molto. Quindi quando abbiamo parlato con gli sceneggiatori ci siamo trovati d'accordo nel trovare una distanza minima perché si possa rimanere nel contemporaneo, ma tale perché noi si possa avere gli strumenti per raccontare una storia di contemporaneità avendo delle coordinate che siano riconducibile a una autentica realtà che accade intorno ai personaggi. 

     

    Però l’ombra di Trump entra molto dentro la storia.

     

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    Per me più che l’ombra di Trump entra il sentimento di un cambiamento inaspettato, brutale, e come una sorta di risveglio da un sogno. Alla fine Obama ha fatto delle politiche molto liberiste, in economia, era abbastanza sensato ma non particolarmente radicale nelle sue scelte sui diritti, Era un moderato, uno di destra sull’economia. Ma ciò non significa che non fosse stato per otto anni un simbolo enorme, potentissimo, che costringeva l’America a una forma di riconciliazione.

     

     Il livello simbolico di Obama era straordinario, per questo io sono abbastanza in disaccordo con la sinistra estrema, alla quale in parte appartengo, quando dicono che Obama era una sorta di liberista travestito, perché resta sempre il livello simbolico, che colpisce l’inconscio e l’inconscio non mente mai, Quando arriva Trump, il simbolo di Obama viene letteralmente spazzato via e emerge un cannibalismo americano come è successo in Italia con Berlusconi. E allora fare accadere questa storia nei sei mesi a cavallo dell’elezione di Trump, permette anche di dimostrare quanto uno si sente dentro o fuori dal proprio tempo e per esempio vedere in che modo gli adulti si relazionano a questo. Sarah dice a un certo punto “I temi son cambiati, adesso la gente vuole che si prendano decisioni scomode e immediate”. Lei, che potrebbe essere una liberal, è una lesbica democratica, colta, non ci mette un secondo a adattarsi a una situazione nuova dell’America trumpiana.

     

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    Invece è quando i ragazzini corrono a perdifiato per Bologna amandosi e in qualche modo chiudendosi in un reale né dentro né fuori, ma altrove, che mi sembra la risposta più forte a livello politico al risveglio brusco del trumpismo. Al di là dei quotidiani e della comunicazione mainsteram esiste una comunicazione molto più potente che non è mainstream, ma che è sovversiva e radicale. 

     

    Mi hai detto che la serie è superscritta. Io lo trovavo bella anche perché così libera, quasi improvvisata

     

    Ma questa è la mia arte. Lo dico ridendo di me stesso. Però la verità è che la fatica che io provo nel fare cinema, perché a me non piace fare cinema, il mio piano era di essere una casalinga, che aveva una casa stupenda…, una Maria Angiolillo forse, la verità è che fare cinema è faticoso. Non fosse altro perché è sempre un levare quel che devi far te. Devi togliere per trasformare quello che è pesante e faticoso in qualcosa che sembri immediato e invisibile. Quindi se tu mi dici che la serie ti sembra improvvisata fra virgolette fai un complimento a me, agli sceneggiatore e agli attori. Tu sai che io ho fatto tutti i miei film in pellicola tranne il disgraziato “Melissa P.” che venne girato in digitale.

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    All’epoca era il primo film italiano girato in digitale quindici anni fa. Fu più un esperimento ma anche un modo per risparmiare soldi. Questo film è in digitale, è in alta definizione ed è una scelta mia personale, perché la serie inizi con questi titoli dove è scritto “qui e ora qui e ora”, ritenevo che usare la pellicola sarebbe stato una sorta di tradimento della vocazione al qui e ora della serie, quindi con Fredrick Wenzel che ha iniziato con me il lavoro di preparazione della serie abbiamo molto pensato a questa idea dell’immagine contemporanea e quindi questo effetto che tu chiami di improvvisazione è molto cercato. 

     

    Qui e ora che significa?

     

    Il qui e ora, il momento in cui vivi. Cosa c’è di più laico di dire qui e ora?

     

    Anche se questo qui è un non luogo…

     

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    Non è completamente vero. Il qui è la base militare e quindi è l’idea che hanno gli americani di essere americani ovunque, di non essere contaminati da nulla. E ora è il qui del luogo dove si trovano poggiati come un’astronave che in qualche modo li contamina inesorabilmente. Nel finale Fraser si arrende all’Italia e si trasforma grazie al suo incontro con Bologna.

     

    La musica che percorre la serie da David Bowie a Klaus Nomi ai Blood Orange, Evidentemente sono scelte tue…

     

    Ci sono due o tre cose che per me sul set non si possono trasgredire. Essendo io molto laico e pronto a collaborare con tutti i miei collaboratori. Uno: la macchina da presa la posiziono e la decido io. Nessuno può prendere posizione di macchina da presa o cambiare ciò che viene preparato. In termini di lente, altezza, movimento. Due: parlo con gli attori non in una sorta di astrazione. Lavoro con gli attori capendo chi ho di fronte. Tre: le musiche le scelgo io, e c’era un’impostazione di base molto forte.

     

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    Quella di avere la colonna sonora che accompagnava come un personaggio le vicende della storia, che si basava su una serie di paradigmi che ormai accompagnano il mio lavoro, come John Adams. L’idea era di utilizzare musica classica nordamericana, quindi ho pensato a personaggi che hanno vissuto la diaspora con l’America, che erano andati via dall’America, e infatti c’è molta musica di Paul Bowles, lo scrittore, che prima di essere andato via era un musicista e che ha vissuto più all’estero che in America, e poi abbiamo lavorato sulla musica di Julius Eastman, che era un grande musicista nero americano che aveva vissuto la sua posizione nel mondo come fosse stato un alieno e poi essendo tutta la serie un omaggio a Pialat, abbiamo pensato al grande musicista Henri Dutilleux che aveva composto le musiche di “Sotto il sole di Satana”. 

     

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    Poi abbiamo cominciato a ragionare sulla musica che adora Fraser, cioè Blood Orange, al punto che poi conoscendo Dev, il compositore, abbiamo scoperto che Dev ha una formazione classica e gli abbiamo chiesto di fare dei pezzettini di musica che si associassero a quelli di John Adams, di Paul Bowles, ecc. poi c’è tutta la musica di Blood Orange, la canzone che loro sentono ossessivamente. Infine avevamo pensato alle musiche che potevano definire i personaggi, Chance The Rapper, Kanye West, Frank Ocean, per colorare le identità dei vari personaggi, E poi mi piaceva l’idea di utilizzare la musica pop in chiave di commento più che di ambientazione. Come Klaus Nomi per esempio, che poi è un omaggio a “Ai nostri amori” di Pialat che inizia con un pezzo di Klaus Nomi, ti ricorderai. 

     

    Una serie così complessa, come è stata accolta in America?

     

    I ratings mi dicono che sono eccellenti, HBO ha già chiesto di capire se vogliamo pensare a una nuova stagione e lo ha chiesto all’inizio della messa in onda. La risposta sui social media è enorme, paragonata ad altre produzioni loro. Le critiche sono bellissime. In Spagna, America Latina e USA la serie è già partita.  

     

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    Parlami di Chloë Sevigny…

     

    Io penso che sia un’attrice straordinaria e densa di sfumature più di molti altri attori che hanno avuto più successo. Per me un attore non è mai uno che arriva lì, conosce le battute e te le recita in maniera più o meno efficace. Per me è una persona che ti porta qualcosa. Chloë Sevigny ti porta 25 anni di cinema e di quel cinema e anche 25 anni di un modo di vivere che io trovo fascinoso e meraviglioso.

     

    C’è una scena straordinaria dove lei, mentre scorrono le immagini dei soldati, anche della sua base, morti in Afghanistan, si spoglia per rivestirsi da militare. L’ho trovata molto forte. Cosa volevi ottenere?

     

    Siccome le hanno comunicato l’incidente mentre lei stava assistendo al giorno dopo le elezioni americane ed è ancora in pigiama, per non perdere tempo si spoglia davanti ai suoi soldati e si riveste. I personaggi nei film o nelle serie televisive nella tradizione del cinema Hollyowodiano devono essere come delle funzioni che devono rispondere a dei ruoli specifici e avere un arco nello sviluppo della storia che permetta a chi fa il film di orientare lo spettatore e dare allo spettatore quello che lui vuole.

     

    Questa è la pratica del cinema hollywoodiano. E da lì si usa la sovversione di quel canone per crearne uno nuovo. Si anticipa o si pospone di un po’ quel che accadrà oppure si va per le regole nei casi più deprimenti. Pensa agli western. Il cinema non americano, europeo, di base rispondeva a dei canoni specifici di ogni cinematografia fin quando piano piano il reflusso hollywoodiano ha cominciato a inquinare le vene delle industrie cinematografiche di tutto il mondo e quindi assistiamo a queste cose para-americane in lingue nazionali che però rispondono nella costruzione a questi codici specifici per cui un personaggio è proprio un personaggio. Io rifiuto questa cosa perché è di una noia mortale, come minimo e come massimo è aggiungere spazzatura a una montagna di spazzatura.

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    Quindi è chiaro che quando lavori sui personaggi hai necessità di fare qualcosa che corrisponda non alla funzione narrativa data secondo dei canoni prestabiliti, ma a come si comporterebbe quella persona nella realtà, non so se è un meccanismo specifico per suscitare qualche reazione al pubblico. Devo dire che mentre giravo la scena c’era chi diceva è troppo. Io non mi pongo la domanda se è troppo. E poi rispetto a cosa? A chi? Sarah Wilson, che va da casa alla base e deve volare per dare la notizia alle famiglie che i figli sono stati uccisi, che cosa farebbe essendo il personaggio che abbiamo visto fino ad allora? È una donna pratica, risouta, si cambia là, di fronte a tutti.

     

    Mi ha fatto pensare, non so perché, a qualche scena di Bertolucci…

     

    Bernardo non ha mai pensato nel suo cinema ai personaggi rispetto a una funzione narrativa, I personaggi di Bernardo erano il frutto della cultura di Bernardo e della curiosità voyeuristica che lui aveva per gli altri. Il suo sguardo era molto penetrante quando stavi in una stanza con lui e della sua idea di una forma di iconicità. I personaggi sono il centro nevralgico di un film. Se tu sbagli la coerenza interna del personaggio, sbagli il tuo film e il tuo film è finito nel momento in cui trasgredisce le regole che ti sei dato prima o quelle regole le pieghi a un formato preordinato. Mi piacerebbe fare un esempio specifico, ma non lo farò, perché si direbbe che o sono invidioso visto che parlo male di un collega molto importante oppure continuo a parlare male dei colleghi molto importanti. Però quando spegneremo il registratore ti dirò a cosa mi riferisco e tu, caro Marco, mi darai ragione anche se pure tu non potrai scriverlo.

     

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