Marco Tullio Giordana per il “Corriere del Mezzogiorno”
paolo isotta
Devo a due napoletani molto diversi tra loro la scoperta della mia città d’adozione. Vittorio Mezzogiorno e Paolo Isotta, entrambi strappati via con odioso anticipo, il primo nel 1994, l’altro pochi giorni fa. Nella primavera del 1981 scelsi Mezzogiorno, attore che ammiravo e di cui ero diventato intimo, come protagonista del mio secondo film La caduta degli angeli ribelli , in parte ambientato a Napoli.
Durante i sopralluoghi usò la cortesia di accompagnarmi in giro mostrandomi chiese, abitazioni private, giardini e musei, anche estranei al film, giusto per il piacere di mostrarli. Ricordo un’incursione nel Museo dell’Istituto di Anatomia diretto dal fratello maggiore Vincenzo, illustre anatomopatologo.
PAOLO ISOTTA MARCO TULLIO GIORDANA
Fiero di mostrarmi le iperrealistiche cere della Specola fiorentina, le macchine anatomiche del palermitano Giuseppe Salerno e altre mostruosità sotto formalina colà raccolte: feti bicefali, teste di suppliziati, organi «donati alla scienza», nolenti più che volenti i loro proprietari in origine. Vincenzo Mezzogiorno aveva gli occhi azzurri del fratello attore e la stessa travolgente simpatia: «come voi siete Regista della Vita – scherzava dandomi del «voi» – così potrei dirmi Regista della Morte».
VITTORIO E GIOVANNA MEZZOGIORNO
Più di trent’anni dopo, Paolo Isotta mi avrebbe mostrato altre macchine anatomiche del Salerno, commissionategli dal principe Raimondo di Sangro e conservate nella cappella Sansevero. Nella stessa mattina volle trarmi in Santa Maria La Nova per rivelarmi la tomba di Vlad Hagyak III, detto Tepes, voivoda di Valacchia, più noto come Dracula grazie al romanzo di Bram Stoker e agli stupendi film della Hammer con Peter Cushing (Van Helsing) e Christopher Lee (Dracula).
Dirò subito una cosa: milanesi e napoletani sono fatti per piacersi. Entrambe le città furono toccate dall’Illuminismo e qualcosa di quel Settecento solerte rimase nel dna di entrambi i popoli nonostante la mortificazione delle classi dirigenti a venire, inadeguate e riluttanti a visioni complesse.
marco tullio giordana
Plebi e aristocrazia delle due città ebbero stessa operosità e pulsione al nuovo, stessa spinta cosmopolita, stessa voglia e capacità manifatturiera, non è peregrino ribadirlo. Dunque che amassi Vittorio Mezzogiorno e mi ci legassi stretto era scritto nel cielo, così come anni accadde con Paolo Isotta.
Tanto più che nemmeno ero milanese perfetto: la mia famiglia è di Crema, il sud della Lombardia vagamente schifato dal padano prealpino e montanaro, e le sue ascendenze erano sparpagliate fra Piemonte (come quelle di Isotta), Liguria, Veneto e Lombardia. Nonne genovesi e veneziane, sangue delle marinare Repubbliche rivali. Nel seme di ogni italiano c’è da sempre il conflitto coi vicini. Meno vivida la consapevolezza che lo scontro porta instabile supremazie e, subito appresso, decadenze inesorabili.
isotta
In quella Napoli primi anni Ottanta mi trovai subito a casa, vuoi per la straordinaria affettuosa accoglienza degli amici di Vittorio (la stessa che avrei trovato negli amici di Paolo) vuoi per la curiosità che avevo di scoprire un mondo frainteso.
Per tutti gli anni Settanta ciò che più si enfatizzava del Sud era la pervasività criminale. I ministri negavano, il resto d’Italia si riteneva immune (tranne Sciascia che, già parlava di «sicilianizzazione» dell’Italia) e Der Spiegel metteva in copertina gli spaghetti col revolver ‘n coppa.
Trionfava l’immagine del disordine e della derelizione, la nuova cartolina in sostituzione delle pittoresche immagini di Posillipo e Vesuvio, il formidabil monte sterminator leopardiano. L’Italia degli anni Settanta era raccontata come groviglio di delinquenza politica e comune, imperversare di vandali e terroristi. Io avevo vent’anni e, anche se guai a dire che sono l’età più bella della vita, non la vedevo così.
giovanna vittorio mezzogiorno
Certo avvistavo nei coetanei la fascinazione dello scontro fisico, percepivo la loro frustrazione e aggressività, il loro misto di convinzioni elementari e ormoni impazziti, ma non tutto mi appariva così orribile e perduto. Intanto c’era l’Arte a difenderci. Mai come in quel periodo aperta, cosmopolita, feconda sperimentatrice. Brulicavano gallerie, concerti, musei, cinema, teatri, festival dappertutto. Né mancavano gli studiosi seri che lasciavano ai grulli di intimare l’uccisione dei padri e devastare la tradizione.
Erano ancora vivi Pasolini, Sciascia, Montale, Prezzolini, per non stare che in Italia, e a loro mi fermo perché l’elenco dei veri maestri è lunghissimo e schiaccia quello dei cattivi, promossi sul momento ma presto soffiati via dal vento. Fra quegli eccelsi già mi colpiva il giovanissimo Isotta, detestabile petulante provocatore ma assai brillante e superdotato in quanto a erudizione, non solo musicale.
isotta
Malgrado varie amicizie comuni, allora non capitò di incontrarci. Nel suo libro Le ali di Wieland. Sette temi musicali del 1984 scopersi che aveva apprezzato il mio primo film del 1980, Maledetti vi amerò , soprattutto il suo irridente catalogo di ciò che è di destra o di sinistra. Tutti lo attribuiscono a Giorgio Gaber, ma era invece mia giovanile insofferenza ai luoghi comuni e flaubertiana anticipata derisione del politically correct. Isotta la colse al volo, anche se non lo seppi subito; fu sorpresa che mi toccò trent’anni dopo, nel 2014. Da lì scrivergli e diventare amici fu tutt’uno.
Torniamo al 1981. La città reca dovunque tracce del recente terremoto, molte strade sono bloccate, enormi travature di legno puntellano i palazzi e sembravo vegetazione antica, sbucata già morta e stagionata dalla terra per abbracciare le case e salvarle dal crollo. Sembra di intuire collaborazione fra le viscere di questa terra antica e il nuovo che vi si sovrappone, che merletta di novità, anche orrende, la città che sale.
giovanna e vittorio mezzogiorno
Guardo, fotografo, e intanto Mezzogiorno pugnala col sorridente sguardo azzurro le fanciulle che lo fermano per l’autografo. Ammiro questa sua capacità di sorprendersi, o meglio fingere sorpresa, a ogni complimento: «scherzi? ‘o dici overamente ?» come se non fosse la centesima volta stamattina che dichiarano di volerselo mangiare.
E dire che ancora non ha fatto la Piovra , il suggello definitivo della celebrità. È attore ancora sofisticato: viene da Eduardo, ha fatto Il Marsigliese di Giacomo Battiato, La Cecilia di Jean-Louis Comolli, Il Giocattolo di Giuliano Montaldo, Tre fratelli di Francesco Rosi.
Paolo Isotta
Sta per essere arruolato da Peter Brook per l’avventuroso Mahabharata che lo porterà in giro per il mondo, ma nessuno lo sa, nemmeno lui. Non è ancora un divo, solo un bravo adorabile attore con una faccia da meticcio indio o asiatico, un circasso, un turcomanno, un volto salgariano che i napoletani amano e sentono vicino, cosa loro fraterna e amica, forse anche preda meravigliosa.
Lo guardo destreggiarsi e capisco l’arte di accusare i complimenti, la prima cosa che un attore dovrebbe imparare. Certo ti stuferai a sentirti dire quanto sei bello, quanto sei bravo, ma ognuno di questi ammiratori te lo sta dicendo per la prima volta, sta facendo lo sforzo di uscire dalla sua timidezza per confessarti il suo amore, trema, non riesce a conficcare i suoi occhi dentro i tuoi.
visconti de sica sordi
Tu come ricambi? Tagli corto, affretti il passo? Minimizzi, sbuffi, sei scocciato? Mezzogiorno non cadeva mai in questa trappola. Ogni volta mostrava meraviglia come il pastore del Presepe, andava in scena regalando a quegli occasionali spettatori un pezzo di sé. Per questo lo adoravano tutti, per questo lo adoravo anch’io. Fossimo state recchie potevamo scappare assieme. Non lo eravamo.
Nemmeno posso dire alla stupenda Giovanna: avrei potuto essere tua madre! come De Sica con Luchino nel mentre gli rivelava di essere sopravvissuto incolume alla cupidigia di suo padre, il duca Giuseppe Visconti di Modrone. Vittorio è morto nel 1994. C’è voluto tempo per tornare a Napoli senza sentirmi sopraffatto dal rimpianto. Tornarvi stabilmente intendo, accettare di camminare per strada senza averlo vicino.
paolo isotta
Il merito fu di Paolo Isotta che mi ingiunse di raggiungerlo nella casa di Corso Vittorio, sbalorditiva. Con quella geniale invenzione della scala elicoidale che non deve sfiorare le pareti, dedicate soltanto ai libri. Questo giornale ha già pubblicato toccanti ricordi di Paolo Isotta da parte di amici suoi infinitamente più competenti e titolati di me per dire le sue qualità, la competenza, il ruolo unico nella cultura italiana a cavallo di due secoli.
Di questo ruolo, tra l’altro non soltanto musicale perché la palette dei suoi interessi brandeggiava a 360°, restano agli atti i libri e la sterminata pubblicistica, ciascun testo prezioso e imprescindibile (Paolo avrebbe preferito il meno consumato impreteribile). Per scacciare la nostalgia dovrebbero bastare. Mancheranno invece le telefonate, l’Hallo pronunciato come negli anni ’50 dalle amiche della madre. Gli scatti di indignazione, le contumelie, le guerre in cui avrebbe voluto arruolarti.
paolo isotta
Le tenerezze improvvise, i colpi di genio, la sensibilità capace di cogliere ogni sfumatura, malgrado tu volessi nasconderla perfino a te stesso. Paolo Isotta e Vittorio Mezzogiorno si sarebbero piaciuti, di questo sono sicuro. Avrebbero parlato in lingua stretta, cosa che non potevano fare del tutto con me a rischio di perder tempo a tradurre. Mi consola pensare che si sono finalmente incontrati e possono finalmente dirne di tutti i colori lassù nei grandi pascoli del cielo.