DAL 10 MAGGIO IN LIBRERIA MARCUCCI CON 'IO SONO LIBERALE' (Piemme)
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In libreria dal 10 maggio per Piemme, 'Io sono liberale', il libro di Andrea Marcucci e Giovanni Lamberti, cronista parlamentare dell'Agi, in cui l'esponente del Pd ripercorre la sua esperienza politica, 'cronaca di un viaggio tra tre Repubbliche'.
Eletto deputato nel 1992 nelle fila del Partito Liberale, passa alla Margherita nel decennio successivo, conosce un giovanissimo Matteo Renzi e nel 2006 nel secondo governo Prodi, viene scelto da Francesco Rutelli come sottosegretario ai beni culturali.
Marcucci diventa poi socio fondatore del Pd, amico dagli anni della gioventù con Walter Veltroni, e poi renziano della primissima ora con l'ex presidente del Consiglio "lo appoggiai fin dalle primarie per il sindaco di Firenze'), con il quale stringe un lungo sodalizio che non lo porta però ad aderire ad Italia Viva.
Capogruppo del Pd in Senato dal 2018 al 2021, in pratica fino all'arrivo di Enrico Letta alla segreteria dem, 'il mio rapporto con lui è stato franco, anche se in tante occasioni ho avuto prese di posizione diverse dalle sue', scrive Marcucci nel libro.
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Il parlamentare in 'Io sono liberale' ripercorre anche le radici imprenditoriali della sua famiglia, attiva nel settore farmaceutico e turistico, ed il suo attaccamento alla Valle del Serchio, dove è nato, e dove hanno sede le sue principali attività economiche, nel resort Il Ciocco.
Marcucci racconta anche quando fu interrogato da Di Pietro durante Tangentopoli con l'accusa di aver finanziato il suo partito ed a causa di un suo ritardo, il giudice minacciò di arrestare i suoi dirigenti e familiari.
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Tra i capitoli più attuali del libro, la ricostruzione minuziosa delle giornate che hanno riportato al Quirinale Sergio Mattarella ('promuovo Renzi, Berlusconi e Letta e considero pessima la gestione di Salvini e di Conte'), gli anni del Covid, la sconfitta del ddl Zan, e la fiducia verso Mario Draghi, un presidente del Consiglio di cui Marcucci ha molta stima e la cui agenda spera che resti a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni. In sottofondo l'analisi postuma di tutti gli errori compiuti con il governo di Renzi, che Marcucci considera 'un'occasione mancata'.
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Estratto del libro “io sono liberale” di Andrea Marcucci pubblicato da Piemme
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«L’avevo conosciuto proprio ai tempi in cui ero sottosegretario. Era rutelliano, ma fu proprio Rutelli a chiedermi di essere il suo interlocutore: “C’è il presidente della provincia di Firenze che mi chiede tre cose al giorno. Te ne occupi tu per favore?”.»
«Appena lo sentii per la prima volta in pubblico intuii subito le sue potenzialità. Fui affascinato dalla sua energia, dalla capacità di mettersi in sintonia con l’ascoltatore, dalla sua audacia, dall’abilità di imporsi, di trascinare, di trasportare l’interlocutore sulle sue posizioni.»
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Una folgorazione. Quel rapporto istituzionale – uno sottosegretario, l’altro presidente di provincia – diventa subito legame personale. «Nacque in breve tempo una stima reciproca. Io barghigiano, lui del contado fiorentino con radici culturali diverse: liberali le mie, cattoliche le sue. Si era fatto da solo, stava facendo un percorso, crescendo nella battaglia, non era un predestinato, non veniva “da una certa famiglia”. Dimostrava determinazione, capacità, volontà, spinta, vocazione. Vidi delle affinità, intuii che stava per accadere qualcosa di importante nel Pd e nella politica italiana.»
Il primo vero incontro politico è a Montecatini nel 2007. Si radunano i rutelliani della Toscana. Tra gli altri ci sono Andrea Marcucci, Ermete Realacci, Marco Carrai, Erasmo D’Angelis, Nicola Danti, Paola Binetti. «C’era una grande curiosità, un’enorme attenzione per questo ragazzo che decideva di correre per le primarie a sindaco di Firenze contro Lapo Pistelli, all’epoca considerato l’enfant prodige della politica toscana. Quella battaglia che pur all’inizio sembrava impossibile mi affascinò subito.»
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Alla prima Leopolda si capì subito che qualcosa di importante stava per accadere. L’entusiasmo, la presenza, la voglia di esserci, un vero delirio. Non era un fuoco d’artificio, ma qualcosa che avrebbe toccato profondamente le corde della politica italiana.»
Nel novembre del 2010 all’ex stazione Leopolda di Firenze Renzi e il consigliere regionale lombardo Giuseppe Ci¬vati vestono i panni dei rottamatori, con l’obiettivo di cambiare volto al Pd. Oltre cento interventi, tutti rigorosamente limitati a cinque minuti, ogni giorno almeno 2.000 presenti in sala. «Ad alcune edizioni della Leopolda sono andato con poca voglia, soprattutto quelle convocate nel periodo di governo, in alcuni casi ho rinunciato a intervenire. Quando un appuntamento diventa routine perde sia il pathos che la spinta. Ma quelle prime kermesse ebbero un grande successo. C’era energia, un’ondata di popolo, facce mai viste prima, tanti gio¬vani, gente che proveniva da tutta Italia a spese proprie. Chi derubrica la stagione renziana come priva di “sentiment” e tutta costruita artificialmente non ha vissuto quei momenti.»
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Momenti di confronto con esponenti dell’economia, della finanza e dello “star system”. Pochi i politici presenti, tra questi Roberto Giachetti, Debora Serracchiani, Ivan Scalfarotto, Davide Faraone, Matteo Richetti ed Ermete Realacci.(..)
Mi ricordo il format originale, c’erano tante idee diverse.» “Prossima fermata Italia”, con la colonna sonora di David Bowie Heroes, è la prima tappa del processo di conquista del Pd. «Il “solco”, le radici e la storia del partito, tanto sbandierate dal segretario Bersani, non possono diventare una fossa» dice dal palco Renzi, che con Civati presenta la “Carta di Firenze”, una sorta di programma politico nazionale. Ma i due presto rompono sulla visita dell’allora sindaco di Firenze a casa Berlusconi ad Arcore. «Da una parte c’era l’apertura mentale di una nuova classe dirigente, in questo caso la capacità di distinguere dalle ideologie le funzioni istituzionali, perché è legittimo che un sindaco parli con un presidente del Consiglio in qualsiasi occasione; dall’altra lo schematismo quasi dogmatico che rimaneva in grande parte del Pd, quello per il quale con il nemico non si parla mai, meglio farci accordi sottobanco.»
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Passano i mesi e la tensione interna sale, anche a causa della strategia renziana di utilizzare i social in un modo considerato dal Pd troppo aggressivo e provocatorio. «Al Senato continuavo a essere l’unico renziano del Pd. Nell’aula di Palazzo Madama avevo scelto il posto più in alto nell’emiciclo: ero isolato, anche fisicamente. Mi occupai di questioni legate alla cultura, alla scuola e cominciai a costruire un’area sul territorio e a mettere in atto un’operazione di supporto a Renzi in chiave parlamentare, convenni con lui che alla prima occasione utile si sarebbe tentata la scalata del Pd.»
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I rapporti con Renzi diventano sempre più costanti. «Ogni iniziativa parlamentare era coordinata con lui. Nonostante alcune sfaccettature per me complicate da accettare che provenivano dalle sue radici lapiriane, mi ritrovavo perfettamente nella sua visione dei diritti, della libertà economica, sulla ne¬cessità di snellire e dare efficienza alla macchina dello Stato. Ho aderito sinceramente al suo progetto, il mio non è stato
un calcolo. È stata una scelta politica e personale, una valutazione sui valori da lui espressi, fatta in un’epoca rischiosa. Non sono salito sul carro di Renzi vincente. Sono salito sul carro di Renzi che si stava avventurando in una scalata complicatissima dove tutti scommettevano sulla sua sconfitta.»
MATTEO RENZI ABBRACCIA ANDREA MARCUCCI
Alla seconda Leopolda, denominata “Big Bang” perché – questo lo slogan provocatorio – «i dinosauri non si sono estinti da soli», Renzi lancia le cento proposte per l’Italia online. Tanti maggiorenti Pd rifiutano di partecipare, anche perché vengono organizzati altri eventi per oscurare il meeting renziano. «Prendeva corpo all’interno del partito un’area che aveva una vocazione diversa in termini politici rispetto al passato.» Marcucci si fa latore di un appello a evitare scontri interni nel Pd e si rivolge soprattutto agli ex della Margherita, in primis a Paolo Gentiloni. Da una cena a casa di quest’ultimo nasce un documento firmato da dieci parlamentari: oltre ai nomi di Giachetti e Realacci, ci sono quelli di Pietro Ichino, Luigi Lusi, Luigi Bobba e Maria Paola Merloni. È il primo atto parlamentare a sostegno di Renzi. Una mossa per allargare il consenso.
MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI ANDREA MARCUCCI
percorso della Margherita e anche con una sfida a calcio balilla. «Ero l’unico parlamentare del Pd al suo fianco e fui tra i pochissimi parlamentari alla presentazione della sua candi¬datura nel capoluogo toscano. Mi colpì la sua pretesa naturale di avere la leadership regionale del partito. Era un pro-vocatore, mandò la sinistra nel panico.»
Come? «Il Pd fece il gioco di Renzi e invece di puntare tutto su Pistelli decise di candidare un deputato storico della sinistra, Michele Ventura.» E poco importa se quest’ultimo in quel momento viene appoggiato da Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi che poi diventeranno renziani di ferro.
MATTEO RENZI ANDREA MARCUCCI
Secondo la regola delle primarie del Pd se nessuno raggiunge il 40% dei voti si va al secondo turno e i primi due si sfidano al ballottaggio. «Ma una parte dell’elettorato della si¬nistra decise di convergere su Renzi che vinse subito con un margine ristretto.» La carta è quella della discontinuità, anche contro il sindaco uscente Leonardo Domenici, combattere contro l’establishment del Pd in nome del rinnovamento. Renzi ottiene il 40,52%, vanno alle urne in 37.468. «Una grande prova di democrazia» commenta il segretario dem Veltroni.
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Il 22 giugno 2009 Renzi con il 60% sbaraglia al ballottaggio il candidato del centrodestra, Giovanni Galli. Una settimana dopo raduna i fedelissimi a Palazzo Vecchio per un brindisi nel suo ufficio. Le prime parole sono all’insegna della modestia, ricordano i presenti: «Chissà cosa penseranno i Medici di chi ora occupa queste stanze…». Poi l’azzardo, la promessa riportata con queste frasi da chi c’era: «Siamo nel palazzo più bello del mondo, ma io vi dico di non abituarvi a questi arredi perché il prossimo palazzo in cui andremo è Palazzo Chigi».
«Esco da quell’incontro allibito. Questo, mi dico, esagera, è un po’ matto. Era impossibile che un figlio di nessuno, senza ascendenze nobili, senza alcuna esperienza politica, avesse questa ambizione.»
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