Martin Scorsese
Estratto dell'articolo di Marco Consoli per www.repubblica.it
In un’epoca in cui se sei maschio e bianco raccontare la storia di una minoranza etnica rischia di vederti accusato di appropriazione culturale, Martin Scorsese è riuscito con Killers of the Flower Moon, il suo nuovo film in uscita il 19 ottobre, a compiere un’impresa: […] è […] una delle più limpide e commosse ricostruzioni che il cinema abbia mai fatto del massacro dei nativi americani da parte dei bianchi.
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Siamo negli Anni Venti, e gli Osage sono tra le comunità più facoltose d’America, grazie all’abbondanza del petrolio scoperto sul loro territorio a partire dall’inizio del Novecento. Ernest (DiCaprio alla fine si è preso la parte), veterano della Prima guerra mondiale, rientra in Oklahoma sperando che suo zio, l’allevatore Bill Hale (Robert De Niro), gli trovi un lavoro. Lo zio, che ama apparire come un benefattore degli Osage, gli propone di diventare l’autista di una ricca nativa, Mollie Burkhart (Lily Gladstone). Quindi spinge il nipote, che nel frattempo se ne è innamorato, a sposarla. Coinvolgendolo così nel suo piano: sottrarre, con sotterfugi e vari omicidi, il diritto allo sfruttamento dell’oro nero. Mollie però riesce a coinvolgere l’Fbi, che invia l’agente White (a questo punto interpretato da Jesse Plemons) a indagare.
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«Insomma, quando ho incontrato gli Osage i loro discorsi sull’amore e sul rispetto per la Terra mi hanno commosso profondamente, e ho capito che dovevo rivoltare la vicenda come un guanto perché diventassero loro i veri protagonisti», spiega Scorsese. «Solo così questa storia poteva diventare universale, e raccontare come i bianchi hanno colonizzato altri popoli depredandoli barbaramente. In qualche modo ho fatto tesoro di una lezione imparata quando guardavo i film da ragazzino».
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Quale?
«Mi sono ricordato di quanto avessi amato Il fiume di Jean Renoir e altre pellicole sull’India di registi britannici e americani. Poi però vidi Il lamento sul sentiero di Satyajit Ray e mi resi conto che quelli che nei film precedenti erano solo comparse diventavano qui i protagonisti. Quella lezione mi ha aperto gli occhi sul cinema di altri Paesi, ma mi ha fatto anche capire che se ti avvicini a culture e tradizioni diverse dalla tua devi farlo con enorme rispetto, accuratezza e passione. Negli anni Cinquanta guardavo i western, e scioccamente pensavo che le storie di indiani e cowboy avessero detto tutto. Invece non era così».
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Anche questa è una storia di violenza, come diversi altri suoi film. Perché ha deciso ancora una volta di mostrarla in primo piano, anziché fuori campo?
«Questa domanda me la pongono dal 1972 e rispondo oggi come rispondevo allora. Potrei fare come la tragedia greca, che lasciava immaginare allo spettatore gli omicidi, ma sono convinto che sia necessario far vedere di cosa sono capaci gli esseri umani. Questo non vuol dire che mi diverta farlo, ma credo che nascondere la brutalità sotto un tappeto non sia mai la scelta giusta».
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Girare un film costa una fatica enorme. A 81 anni cosa la spinge ancora ad affrontarla?
«Il cinema è la mia vita, e ogni volta che giro un nuovo film trovo sempre qualcosa da imparare. Per esempio, dopo Toro scatenato, che non fu un successo, ho dovuto ricominciare tutto da capo con Re per una notte e Fuori orario. Nella mia carriera ho cercato di non ripetermi e trovare ogni volta nuove forme di narrazione: […]
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Cosa ne pensa del trionfo al box office di Oppenheimer e Barbie?
«Non ho visto nessuno dei due, ma sono felice che siano due successi, perché ammiro sia Chris Nolan che Margot Robbie – venne lanciata proprio da Wolf of Wall Street. In generale sono felice se la gente torna al cinema, e spero che film come questi diano respiro a un cinema diverso da quello che ha dominato a Hollywood negli ultimi 20 anni. Non capisco perché i produttori pensano che i film indipendenti debbano interessare solo a poche persone».
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Lei è al suo decimo film con De Niro e al sesto con DiCaprio. Cosa rappresentano questi due attori per lei?
«Bob l’ho conosciuto a 16 anni, me lo presentò Brian De Palma: è uno dei pochi a sapere da dove vengo e chi sono veramente. Dopo Mean Streets e Taxi Driver capiì che ci accomunava l’interesse per certe storie e anche certi conflitti psicologici nei personaggi. Tra noi si è costruita una reciproca fiducia, e fu lui a propormi di fare vari film, come Toro scatenato che all’inizio non volevo girare, o New York, New York: […] Le parole chiave per descrivere Bob sono assenza di vanità e mancanza di paura, sia nell’affrontare un ruolo sia nel discutere con gli studios che varie volte volevano sottrarmi il controllo sui miei film. Fu proprio lui a presentarmi Leo. Mi disse: ti consiglio di lavorare con questo ragazzo. E così iniziammo a girare Gangs of New York».
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Che cos’hanno in comune?
«L’ho capito quando ho girato The Aviator: entrambi sarebbero pronti a fare qualsiasi cosa per il film. Anche se poi, in realtà, lavorano in modo molto diverso».
In che senso?
«Bob è uno silenzioso, con lui non c’è bisogno di perdersi in chiacchiere, è troppo interessato a trovare il personaggio che deve interpretare nell’azione del momento. Con Leo invece parliamo molto. E proviamo, prima di andare sul set. Ma sono entrambi straordinari. Gran parte della mia fortuna come regista è dovuta al loro talento».
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