TOMMASO FREGATTI per la Stampa
MARTINA ROSSI
Mentre i giudici della Corte d'Appello di Firenze assolvono i due imputati «perché il fatto non sussiste» cancellando anni di indagini e di speranze di avere giustizia, il padre della vittima non si trattiene: «Non hanno salvato neppure l'onore di mia figlia».
Si è concluso con un colpo di scena il processo per la morte di Martina Rossi, studentessa genovese di 20 anni che il 3 agosto 2011 morì precipitando dal balcone di un hotel di Palma di Maiorca alle isole Baleari, in Spagna.
MARTINA ROSSI
La Corte d'Appello di Firenze non ha creduto che Martina sia morta cadendo nel vuoto mentre scappava da un tentativo di stupro come era stato deciso dai giudici di primo grado. E ha ribaltato la sentenza del tribunale di Arezzo che nel dicembre 2018 aveva condannato a 6 anni gli imputati Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, studenti di Arezzo incontrati da Martina durante una vacanza con le amiche. I due erano accusati di tentata violenza sessuale di gruppo. Ma sono stati assolti con formula piena.
«È la fine di un incubo» ha detto Vanneschi subito dopo la sentenza. Entrambi hanno preferito non essere in aula alla lettura del dispositivo. La Procura generale di Firenze aveva chiesto 3 anni di reclusione per i due studenti. Il massimo della pena dal momento che l'altro reato per il quale erano accusati, morte come conseguenza di altro reato, era stato giudicato prescritto nelle udienze precedenti.
MARTINA ROSSI
La Procura generale ha già fatto sapere che non appena saranno depositate le motivazioni del processo di Appello, previste in 40 giorni, farà «ricorso in Cassazione». Spetterà dunque ai giudici della Suprema Corte mettere la parola fine ad una tragica vicenda cominciata con un'indagine personale della stessa famiglia Rossi che non aveva mai creduto all'ipotesi che Martina si fosse tolta volontariamente la vita, come era stato ipotizzato inizialmente.
Un'indagine partita da un esposto in Procura a Genova e poi trasferita per competenza in Toscana. Che aveva come punto di partenza il racconto delle amiche con cui Martina divideva la camera dell'hotel. Isabella e Alessia, anche loro genovesi, avevano spiegato che quella sera con Martina lasciarono un locale all'alba per tornare in albergo, insieme a quattro ragazzi di Arezzo.
Due di questi si appartarono nella con Isabella e Alessia, mentre Albertoni e Vanneschi raggiunsero la 609 (al sesto piano) e subito dopo Martina, per non essere d'impiccio alle amiche. Qui, secondo Albertoni, la vittima a un certo punto si svegliò di soprassalto, gridando «sei un assassino, mi vuoi uccidere», lo graffiò al collo e si lanciò dalla finestra (l'autopsia escluse qualsiasi uso di droghe o abuso di alcol, ndr) . Ma nella contro-indagine della famiglia - assistita dal legale Stefano Savi - quella versione venne ribaltata. Anzi quel graffio sul collo per gli inquirenti rappresenterebbe la prova dell'aggressione a Martina che si sarebbe difesa.
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La svolta nell'indagine arriva il 7 febbraio del 2012, quando Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni si presentano al palazzo di giustizia genovese. I due amici sono solo testimoni (vennero poi accusati di tentata violenza sessuale, omicidio colposo, morte come conseguenza di altro reato e omissione di soccorso). Ma gli eventi quel giorno precipitano. Nella sala d'attesa, in una pausa tra un interrogatorio e l'altro, commettono un errore. Albertoni, senza sapere che la sua voce è registrata, avvicina Vanneschi e lo tranquillizza sul fatto che non ci sono prove «sulla violenza sessuale».
Attenzione: nessuno, fino a quel momento, ha mai parlato di uno stupro. I poliziotti spagnoli hanno archiviato il caso senza fare alcun accertamento in quel senso. Gli investigatori italiani non hanno ancora ipotizzato nulla a riguardo. Di qui parte un lungo iter giudiziario che porta alla condanna in primo grado dei due studenti. Condanna, però, cancellata dai giudici di secondo grado.
A Genova dell'inchiesta resta pendente soltanto il processo per due compagni di stanza di Vanneschi e Albertoni. Per l'accusa avrebbero fornito versioni contraddittorie o non veritiere negli interrogatori per coprire gli amici. E per questo sono accusati di falsa testimonianza.
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