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    I GIOCHI SONO UNA COSA SERIA - INTERVISTA A MARTINO CHIACCHIERA, UNO DEI POCHI AUTORI DI GIOCHI DA TAVOLO A TEMPO PIENO, CHE HA REALIZZATO OLTRE 40 TITOLI: “QUANTO TEMPO CI VUOLE PER CREARE UN GIOCO? A VOLTE BASTA UN'INTUIZIONE. PARTO DALLA VOGLIA DI VEICOLARE UNA CERTA EMOZIONE, ALTRE TENTO DI FAR PROVARE SENSAZIONI PARTENDO DA UN COMPONENTE DEL GIOCO, COME UN DADO O UNA MINIATURA. E' UN MODO PER IMPARARE O INTERIORIZZARE QUALCOSA..."


     
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    Alessio Lana per il "Corriere della Sera"

     

    Strano mondo quello dei giochi da tavolo. Ogni anno escono tra i 3.500 e i 4.000 titoli (350 solo in Italia), eppure nella nostra mente fanno ancora rima solo con «Monopoly» (che oggi si scrive con la ipsilon) e «Risiko!» (che ha sempre l'esclamativo alla fine). C'è poi un esercito di autori che li realizzano. Solo la Saz Italia, l'associazione degli autori di giochi, conta 56 iscritti ma il numero totale dovrebbe essere intorno al centinaio. 

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    Tra loro c'è Martino Chiacchiera. Perugino, 28 anni, è uno dei pochi autori che fa solo questo lavoro e oggi vive in Germania, Paese che ha dato i natali ai giochi da tavolo moderni (quelli post «Risiko!» e «Monopoly») e riconosce ufficialmente questa professione. 

     

    Come si diventa autore di giochi? 

    «Tutti siamo autori di giochi, tutti li inventiamo da bambini e tutti abbiamo questa capacità ma poi, crescendo, la disimpariamo. Io invece non ho mai smesso. L'epifania è arrivata a 16 anni: ero al liceo scientifico e nel libro di storia avevo visto gli scacchi di Carlo Magno. Da lì mi era venuta l'idea di reinventarli e ho pensato "qualcuno avrà pur ideato Risiko! e Monopoly", ecco volevo farlo pure io». 

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    Ha studiato per farne una professione?

    «Dopo lo scientifico ho studiato Agraria, che era il mio piano B in caso qualcosa fosse andato storto. A vent' anni però è uscito il mio primo gioco, Mood X, che è stato pubblicato in quattro lingue (ma non in italiano). A quel punto ho lasciato l'università e scelto di concentrarmi sulla professione che volevo fare. Da lì sono arrivato a pubblicare anche 13 giochi all'anno e ad oggi ho realizzato oltre 40 titoli collaborando con 13 autori». 

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    Come fa a ideare un gioco? Da cosa parte? 

    «Spesso parto dalla voglia di veicolare una certa emozione nel giocatore. Altre tento di far provare delle sensazioni partendo da un componente del gioco come un dado o una miniatura, da una meccanica (una serie di regole) o da un tema di cui so poco. Per me ideare giochi è anche un modo di imparare o interiorizzare qualcosa, mi spinge a documentarmi su un determinato argomento che non conosco bene ma per cui nutro forte interesse o curiosità». 

     

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    E poi? 

    «Dopo aver avuto l'idea si parte con l'implementazione, si fa un prototipo del gioco, che è una versione realizzata con materiali di fortuna, spesso con pezzi di altri giochi. Ciò permette di realizzare il cosiddetto playtest: lo si fa provare a diverse persone per capire cosa non funziona e quali sono gli errori da correggere finché non si arriva a un prodotto soddisfacente. L'ultimo passo è simile a quello del libro: si cerca un editore in linea con il gioco, che si occuperà di commercializzarlo». 

     

    Quanto tempo ci vuole per ideare un gioco? 

    «Dipende, è molto variabile. Capita che l'intuizione scocchi come un colpo di fulmine, oppure si parte da un'idea e si arriva a tutt' altro. "Wonder Book", il mio ultimo titolo, è nato sei anni fa in un modo e oggi è diverso. L'idea era sfruttare i libri pop-up in modo innovativo ma poi è evoluto con me: da un lato ho cercato di superare lo stato dell'arte dei giochi cooperativi con le miniature su una mappa, dall'altro ho inserito fasi che chiamano in causa le convinzioni etiche del giocatore». 

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    Aiutiamo i lettori che desiderano iniziare: come si sceglie un gioco da acquirente? 

    «Per giocare con i figli non ho dubbi: scegliamo sempre qualcosa che diverta anche noi. Con gli amici dobbiamo essere un po' psicologi, informarci prima su chi sono le persone che avremo al tavolo e in quale contesto. E da qui, poi, scegliere il tema, lo stile, se è meglio qualcosa di cooperativo - in cui si vince e si perde insieme - o di competitivo. Dobbiamo, però, rompere il concetto di semplicità: un neofita non è necessariamente una persona da "educare" e portare verso giochi più complessi. Spesso si può già partire da qualcosa di complesso, purché l'esperienza risulti interessante per chi partecipa». 

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    Qual è il suo gioco preferito? 

    «Da autore, mi stimolano i progetti a cui lavoro, fino a che vengono pubblicati. Come giocatore invece ne cito tre: "Sandwich", un gioco frenetico in cui si creano improbabili hamburger da propinare agli altri, "Dixit", che permette di scatenare la creatività, e "Nell'anno del dragone", che richiede scelte difficili, Come la vita. E divertente».

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