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Gianluca Marziani per Dagospia
Allarme sociale e ragionevolezza non vanno molto d’accordo, oggi più che mai. Se poi alle sirene collettive si aggiunge lo spiazzamento di un’egregora chiamata Covid, la confusione raggiunge il suo culmine. Non credevo, durante la mia missione terrestre, di osservare un tale scollamento tra ragione e sentimento, evidenze e invadenze, equilibrio e salto nel vuoto.
La Cultura in era virus ne fa le spese senza fare una spesa da provviste invernali; al massimo si è passati alle riserve auree per molti settori, tra rischio di sopravvivenza e compromessi al ribasso. L’arte visiva, più immune al divismo di altri ambiti, sembra salvarsi quantomeno nei suoi apparati logistici, con sedi espositive che preservano un loro distanziamento congenito, finora mai passato (a parte le tre ore degli opening precovid) per i volumi delle folle assembrate.
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Il percorso regolamentato sta migliorando la giusta fruizione, evitando congestioni che riguardavano, almeno in Italia, Musei Vaticani, Uffizi, San Pietro, Colosseo e poco altro. Il problema odierno tocca, semmai, i contenuti con cui esprimere l’identità di musei, fondazioni o qualsiasi altro spazio di produzione visiva. E qui cadono in tanti, ancora troppi: perché serve revisionare le logiche di sponsorship e produzioni, costruire mostre che includano anziché escludere, implementare una cultura digitale con funzioni evolute.
Avremo ancora bisogno dei musei conservativi, luoghi di memoria condivisa con cui stabilire le coordinate d’analisi e indagine; al contempo dovranno crescere i musei dell’era digitale, tarati sull’antropologia del Novacene, immersivi in senso olistico, adiacenti agli esiti della fisica quantistica e dei nuovi modelli di edutainment.
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La perdita di ragionevolezza, dentro una società sempre più distopica, determina il cortocircuito del buonsenso. E allora ecco accadere l’imprevedibile che abilita i fatti al paradosso sociale. Il tema del BLACK LIVES MATTERS, ad esempio, scatena molte comunità in lotta per una società non razzista, per un pensiero umanistico e non epidermico, per una rivoluzione dei confini mentali. Anelito sacrosanto che merita sviluppo, dialettica e sintesi; se, però, si usa la black consciousness per un western da regolamento di conti, il risultato cura una malattia ma ne crea altre ad effetto chemioterapico.
E’ di questi giorni la notizia di una nuova galleria a New York (di prossima apertura) in cui esisterà un solo diktat: cultura black senza compromessi, con soli artisti black in programma, uno staff di sole persone black (vestiti in nero o potranno usare anche il bianco?) e stage solo per studenti black. A dirigerla ci sarà Ebony L. Haynes, critica d’arte black che viene da esperienze curatoriali tra New York e Los Angeles.
Qualcuno penserà all’idea provocatoria di un millennial afroamericano, invece si tratta del nuovo progetto firmato dal tedesco David Zwirner, gigante del mercato mondiale, art dealer con sette gallerie in carnet, leader supremo di un lavoro “ad arte” nei mondi finanziari.
Dal nome e cognome capirete che Zwirner è un bianco europeo, entrepreneur visionario che cavalca l’onda black secondo la miglior coscienza speculativa di casa America. Il trumpiano MAGA (Make America Great Again) sta diventando MBA (Make Black America), ed è un pericoloso populismo razziale che altera gli equilibri sociali in nome di una revisione isterica della Storia. Il futuro in equilibrio si costruirà, cari amici terrestri, con parsimonia e pazienza, senza scatti da velocista morale, gestendo risorse in forma altruistica e dilazionata;
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alle sinistre progressiste dovranno rispondere leadership di Destra che investiranno nella Cultura in modo non ideologico, non reazionario, in equilibrio tra progressismo liberale e conservatorismo evoluto; avremo bisogno di nuove filosofie oltre il Capitalismo, riscritte da pensatori che superano il confine darwiniano e ampliano la nostra dimensione scientifica; serviranno imprenditori etici e visionari, dispensatori di utopie a portata d’uomo nuovo; avremo bisogno di giovani sempre più fluidi, figli di culture non binarie, liberi dai dogmi del Novecento, attrezzati per l’impatto tecnologico sulla specie umana.
La Black Gallery mi sembra un utile paradosso che ci fa ragionare sui limiti della ragionevolezza. In termini speculativi, se valutiamo il global art system come motore complesso dentro il flusso finanziario, la scelta di David Zwirner non fa una piega: ha individuato una nuova fetta di mercato, ha creato il profilo mancante ed è diventato capofila di un processo che investirà altri operatori. Se, invece, ci assumiamo l’onere della Storia come complessità e andiamo oltre la comunicazione corporate, allora qualcosa non torna sull’abbecedario delle cose sensate. La cultura del ghetto rischia di diventare un ghetto della cultura, sorta di vendetta servita a freddo, tra militanza capitalistica e bombe di comunicazione.
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New York ci ha abituati ai paradossi: alcuni contraddittori, altri favolosi se pensiamo al suo tasso creativo fin dagli anni Cinquanta; chissà, forse serviva un gesto estremo nella black culture delle arti, per stigmatizzare la parte peggiore del nostro passato, provocando al fine di riabilitare, eccedendo per ritrovarsi migliori nel prossimo domani. La risposta la costruiranno le nuove generazioni, senza l’uso di muri divisori, senza selezioni di specie, senza retorica populista; una risposta che, speriamo, si occuperà dei contenuti e non della provenienza geografica, dei valori morali e non degli strumenti ideologici.
Noi alieni da pianeta rosso abbiamo una sola razza, quella Marziana.
Voi terrestri riuscirete mai a guardarvi come Umani in purezza biologica?
Gianluca Marziani Gianluca Marziani mamma andersson the lost paradise new york