Luigi Mascheroni per www.ilgiornale.it
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Le domande sono due. La prima: chi è Aldo Braibanti? E la risposta è semplice: un intellettuale, poeta, chiamato il Professore, anche se in realtà non insegnò mai, fu piuttosto un attivissimo organizzatore culturale che si occupava di arte, cinema, teatro e letteratura ma anche - con intuizioni profetiche sulla scia di Pier Paolo Pasolini - di ecologia e di società dei consumi; nato a Fiorenzuola d'Arda, famiglia risolutamente antifascista, partigiano, arrestato due volte, nel '43 e nel '44, anche torturato, poi comunista critico (dichiaratamente omosessuale non era gradito neppure nella sentina omofoba e bigotta della cosiddetta sinistra ormai di poca lotta e molto potere), anima del laboratorio artistico-comunitario di Castell'Arquato, nel piacentino, Aldo Braibanti divenne famigeratamente celebre negli anni '60 allorché unico caso nella storia della Repubblica italiana - fu condannato per il reato di plagio, ossia riduzione in proprio potere «e in totale stato di soggezione» di un'altra persona, come recitava la legge 603 ereditata dal Codice Rocco.
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Braibanti dal 1962 convive a Roma con un ragazzo, peraltro già maggiorenne, fino a quando il padre-padrone di una famiglia ultracattolica rapisce il figlio e denuncia alla Procura di Roma il Professore, il quale alla fine di un lungo processo, durato dal '64 al '68 - anno di contestazioni mondiali per ottenere più libertà e maggiori diritti - viene condannato a nove anni di carcere, ridotti a sette e infine a due in Corte d'Appello per riconosciuto merito patriottico di partigiano. Braibanti, al quale nel 2006 fu concesso dal governo Prodi l'assegno mensile previsto dalla «legge Bacchelli», è morto nel 2014, a 92 anni, lasciando in eredità alla biblioteca di Fiorenzuola i suoi 15mila libri e le carte personali, ancora tutte da studiare.
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La seconda domanda, invece, è più delicata. Chi era il suo giovane compagno e, soprattutto, che fine ha fatto? La risposta è laconica e lacunosa. Si chiamava Giovanni Sanfratello, era un ragazzo al quale piaceva il disegno e aveva 24 anni quando fu riacciuffato dalla sua famiglia, rinchiuso in manicomio, a Verona, dove fu sottoposto a 40 elettroshock e 19 trattamenti di coma insulinico con l'intenzione di farlo guarire da quella che era considerata una malattia, cioè l'omosessualità; poi liberato ma con la proibizione di uscire di casa e leggere libri che avessero meno di cent'anni. Al processo cercò inutilmente di difendere l'amante-Professore. E poi, una volta chiuso il caso, di lui non si seppe più niente, se non che cambiò città e morì nel 2018, risucchiato nel vortice del peggiore oblio. Non ci resta né un documento, né un disegno, né una foto, solo quelle scattate durante le udienze. Una vita nullificata.
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Chi ha cercato di fare parlare questo «nulla» è stato l'autore napoletano Massimiliano Palmese il quale già nel 2011 a Il caso Braibanti dedicò un testo teatrale «Gli atti del processo, così grotteschi, erano una pièce già fatta e finita», racconta al Giornale - e poi a partire da quello spettacolo ha realizzato nel 2020 un documentario tanto antisentimentalistico quanto inquietante, dallo stesso titolo, girato con Carmen Giardina, che ha debuttato in agosto alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro di Pedro Armocida, osannato dalla critica e poi vincitore del Nastro d'Argento 2021 come Miglior Docufiction. Un'opera che continua a girare: è su Sky Documentaries e Prime video e la sera del 31 agosto sarà proiettato a Roma, a «L'Isola del Cinema».
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Sono felice di avere riacceso una luce su Braibanti dice il regista e spero che ora la tv pubblica compri il documentario per tenerlo su RaiPlay. Servirebbe a due cose: ricordare Aldo Braibanti, un uomo definito da Carmelo Bene un genio; e documentare l'omofobia di uno dei peggiori scandali della storia italiana».
È vero. Il caso Braibanti, una delle macchinazioni più mostruose e lasciate impunite del dopoguerra, assieme al caso Tortora, fu lo specchio di quel Paese e uno scandalo non solo giudiziario, ma politico e civile, come disse Umberto Eco. Anche se in realtà l'indignazione degli intellettuali arrivò dopo: gli Eco, i Moravia, le Morante, le Maraini, i Bellocchio, lo stesso Pasolini intervennero più tardi, a lottare sì per Braibanti ma anche per loro stessi, mentre il primo a correre in soccorso del Professore fu, come sempre, rischiando del suo, Marco Pannella.
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E comunque, ora, aperta la strada da Massimiliano Palmese, omosessuale militante, arriva il regista Gianni Amelio, omosessuale dichiarato: alla Mostra del cinema di Venezia porterà, in concorso, il film Il signore delle formiche (tra le varie passioni di Braibanti c'era anche quella per la mirmecologia) con Luigi Lo Cascio nella parte del Professore (ruolo e attore sono di quelli già in profumo di David di Donatello, almeno guardando i due minuti di trailer) e Elio Germano in quella di Ennio, giornalista di fantasia che segue l'inchiesta.
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Curiosamente e c'è da chiedersi come mai nella scheda del film di Amelio, «basato su fatti realmente accaduti», il personaggio di Giovanni Sanfratello, la vera vittima di tutta la vicenda, più di Braibanti, ancora una volta, sparisce: il suo nome non c'è (Per evitare querele? Autocensura? Scelta autoriale? Paura della reazione della famiglia, visto che Agostino, fratello di Giovanni, è ancora vivo?). E così il ragazzo amante di Braibanti nel film è chiamato Ettore (interpretato dall'attore Leonardo Maltese), ma a lui è riservata la battuta centrale: «Il processo è assurdo: non c'è nessun colpevole perché non c'è nessuna colpa».
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Sparito il vero nome del convitato di pietra - un ragazzo che in una lettera scritta quando è rinchiuso nell'ospedale psichiatrico chiede ad Aldo di raccontargli le tecniche che usava per disegnare, perché non ricorda più nulla - speriamo, ma dubitiamo, ci siano almeno quelli dei magistrati che compirono lo scempio.
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