Marco Bonarrigo per il Corriere della Sera
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La rincorsa verso l'oro olimpico di Tokyo di Massimo Stano cominciò nel lontanissimo 2005 quando Giovanni Zaccheo, tecnico della gloriosa Fiamma Olimpia, convocò l'allora mezzofondista tredicenne alla stazione ferroviaria di Palo del Colle per colmare un buco in vista del Trofeo Puglia: alla squadra mancava un marciatore.
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Come andò, Massimo?
«Zaccheo mi chiese di immaginare un treno in partenza: devi salirci sopra camminando velocemente ma senza mai correre, mi disse, se corri il capostazione alza la paletta rossa e sei squalificato. Quella roba lì era la marcia».
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E lei?
«Provai e gli risposi che la marcia era una schifezza. E non andai al Trofeo Puglia».
E...?
«Al ritorno i miei compagni parlavano solo di quella gara di marcia e quindi dissi a Zaccheo che avrei provato anch' io. Debuttai a Barletta».
Risultato?
«Quarto in 12'17". Capii subito che la marcia era l'ultima spiaggia dell'atletica: la scegli se non sei abbastanza veloce, potente o agile per fare altro. Anzi, è lei che sceglie te tra i più sfigati».
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Amore eterno?
«No. L'anno dopo ai Campionati italiani di Ravenna rimasi in testa fino a 500 metri dalla fine. Poi un giudice mi schiaffò in faccia un cartellino rosso, il primo di tanti. Urlai a Zaccheo: mai più in vita mia».
Come reagì?
«Fu un grande. Rispose al volo: hai ragione Massimo, la marcia non fa per te. Due mesi dopo ripresi e oggi sono ancora qui».
Cos' è la marcia per Stano?
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«Correre strisciando i piedi per terra e senza mai sbloccare le ginocchia. Tortura, fatica bestiale: per provarci gusto devi essere sadico».
Una carriera di alti e bassi, poi nel 2016 ha cambiato vita.
«Mi sono trasferito da Sesto San Giovanni a Ostia per essere vicino al mio nuovo allenatore, Patrick Parcesepe, lo stesso di Antonella Palmisano. Gli devo moltissimo».
Perché?
«Venivo da due fratture da stress alla tibia. Patrick capì che il mio stile di marcia non andava d'accordo con la forma delle mie gambe. Abbiamo rivoluzionato il passo per renderlo più fluido, scelta pericolosa perché rischi il fallimento o la squalifica. O entrambi: ai Mondiali di Doha 2019 un cartellino rosso mi fermò mentre ero lanciato verso una medaglia».
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I marciatori squalificati gridano sempre al complotto. Lei a caldo, in tv, si dichiarò subito colpevole.
«Ho scelto la marcia, so che c'è una giuria che deve decidere a occhio nudo se il mio stile è corretto o meno. Tre giudici stabilirono che non lo era. Il giorno dopo rividi la gara in tv: i rossi ci stavano. Decisi che mi sarei vendicato a Tokyo e così è stato».
Nella marcia si bara di proposito o per eccesso di foga?
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«Entrambe le cose. Ci sono i bari di professione che sperano di farla franca, sempre meno per fortuna».
Lei dice che la svolta è arrivata in una prova di Coppa del Mondo a La Coruña, nel 2019.
«Quel giorno decisi che non avrei mai più messo al polso un cronometro per non farmi influenzare e che se la gara fosse andata male avrei ingaggiato un motivatore per rimuovere i limiti mentali».
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Marciò in un'ora e 17', demolendo il primato italiano. L'orologio non l'ha più rimesso. E il motivatore?
«Faccio da solo: ho brevettato due frasi banalissime (si figuri che una è: sei il più forte del mondo) che da allora mi ripeto ossessivamente prima di ogni gara. Funziona».
A Tokyo era il più forte del mondo?
«In quei novanta minuti, sì. E quando dopo un'ora di gara ho visto che ero l'unico in testa a non avere proposte di squalifica ho capito che potevo forzare e staccare tutti».
La vittoria le ha cambiato la vita?
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«No, mi sono attrezzato mentalmente. Nella mia testa ho deciso di essere arrivato secondo: così resto lo Stano di sempre e ho ancora fame».
Come intendi saziarsi?
«Nel 2022 farò Europei e Mondiali, alternando la 20 e la 35 chilometri».
L'Italia non vinceva un oro olimpico nell'atletica dal 2008 con Alex Schwazer.
«Io ricordo l'oro di Ivano Brugnetti ad Atene 2004».
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E Schwazer?
«Schwazer dopo Pechino si è dopato: la sua storia non mi interessa. Di vincere da sporchi son capaci tutti».
Lei si è convertito all'Islam per amore di sua moglie Fatima, ex atleta.
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«Credevo in un Dio e ora, dopo l'incontro con l'Islam, credo in un Dio diverso. Non so quale religione monoteista sia quella giusta, in fondo sono simili, ma ora sono in pace con me stesso».
L'Islam è molto esigente con i praticanti, Ramadan compreso.
«Seguo tutti i precetti, compresi quelli del Ramadan. Molti atleti di alto livello sono musulmani osservanti: nel mese di precetto il digiuno può essere rispettato senza privazioni particolari. È un sacrificio, certo, ma noi atleti siamo abituati a sacrificarci e seguire le regole».
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Uno che marcia a 15 km/h per oltre 500 km al mese è capace di andare lentamente?
«No, purtroppo: quando propongo agli amici una passeggiata sul lungomare di Ostia si dileguano tutti».
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