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    NON TUTTO IL COVID VIEN PER NUOCERE – MATTIOLI: “DIDO AND AENEAS” DI PURCELL ALLA FENICE DI VENEZIA E “RINALDO” DI HAENDEL AL TEATRO DEL MAGGIO DI FIRENZE, I TEATRI FANNO DI NECESSITÀ VIRTÙ E RIAPRONO METTENDO IN SCENA UN PO' DI BAROCCO, ASSAI ADATTO A QUESTI TEMPI PESTILENZIALI: POCA ORCHESTRA, POCO O NIENTE CORO, MENTRE SI RIESCONO A RIEMPIRE SALE CON CAPIENZE DIMEZZATE O ANCHE MENO... - VIDEO


     
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    Alberto Mattioli per lastampa.it

     

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    Forse non tutto il Covid vien per nuocere. È almeno l'occasione per i teatri italiani, riaprendo, di mettere in scena un po' di barocco, assai adatto a questi tempi pestilenziali: poca orchestra, poco o niente coro, mentre si riescono a riempire sale con capienze dimezzate o anche meno, cosa che forse non succederebbe se fossero disponibili tutti i posti.

     

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    Alla Fenice è andato dunque in scena Dido and Aeneas di Purcell, in un teatro ancora in modalità virus, quindi senza poltrone in platea, con gli spettatori distanziati soltanto nei palchi oppure sul palcoscenico che alcune strutture di legno trasformano in una specie di prua di una nave immaginaria. L'orchestra è in platea e lì si svolge anche l'azione, non molta, immaginata dal regista e coreografo Giovanni Di Cicco.

     

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    Di solito l'intervento di danzatori che «doppiano» i cantanti è indizio infallibile di fuffa; qui invece lo spettacolo, che è poco più di una mise en espace, funziona abbastanza bene. Volendo, l'effetto del capolavorissimo di Purcell potrebbe (e forse dovrebbe) essere ben più incandescente. Però questa regia stilizzata e atemporale riesce comunque a trasmettere il senso della fatalità arcana che colpisce la sventurata Didone.

     

    Dirige Tito Ceccherini, con un gusto molto raffinato nei momenti lirici, raccolti e commoventi. Rispetto ai Purcell dei barocchisti, ci sono meno effetti speciali orchestrali e una certa monotonia di colori che, per esempio, impedisce di cogliere lo stacco fra il mondo degli uomini e quello soprannaturale, senza contare che tutto l'apparato stregonesco di maghe, incantatrici e demoni sogghignanti è probabilmente da intendere in senso grottesco più che esclusivamente drammatico.

     

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    Il continuo è comunque ottimo. La giovin primadonna, Giuseppina Bridelli, ha molti numeri al suo attivo: una bella voce, una grande intensità e anche una notevole presenza scenica. Dovrebbe forse, anche lei, lavorare più sui colori, invece di cercare sempre il bel suono che in teatro non è sempre un suono espressivo.

     

    Tutta la compagnia è comunque molto buona. Il duetto fra Belinda e l'ancella, rispettivamente Michela Antenucci e Martina Licari, è un'autentica delizia, come la voce da contralto autentico di Valeria Girardello nella Maga, e sia pure con una gestualità che era pura Regina cattiva di Biancaneve (mancavano soltanto le unghie artigliate come nelle Turandot di una volta). La scelta di un tenore lirico come Antonio Poli per Enea è curiosa. La tessitura è chiaramente troppo bassa per lui (oggi Enea è spesso affidato a un baritono) e qualche sfoggio di sonorità sembra curiosamente verdiano: però finalmente una «presenza», scenica e vocale, in un personaggio che in tre Dido su quattro risulta sempre farlocco. Ottima l'orchestra ed eccellente il coro di Claudio Marino Moretti.

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    A Firenze, al teatro del Maggio, si torna invece a far l'opera «vera», con orchestra in buca, distanziata e plexiglassata, e il pubblico in platea, sia pure un posto sì e uno no, e perfino con l'intervallo, finora ovunque bandito: le vesciche degli spettatori più agé sentitamente ringraziano. Si esuma il Rinaldo «di Pizzi» (e anche un po' di Händel, volendo), storico spettacolo dell'85, inteso come Novecento, poi ripreso dappertutto. Lui, il sommo Pier Luigi, festeggiatissimo, a novant'anni ne dimostra trenta di meno e ai ringraziamenti zompa sul palcoscenico in calzini rossi cardinalizi. Fantastico.

     

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    Prima la musica, però. La riuscita è indiscutibile. L'opera, per la verità, è data in una curiosa edizione, in effetti un'ampia selezione, basata sulla versione originale, a sua volta piena di autoimprestiti, del 1711, ma con alcune arie eseguite nella versione approntata dall'autore per la ripresa del 1731. Non pervenuto il personaggio di Eustazio, fratello e doppio di Goffredo di Buglione, tagliato dallo stesso Händel appunto nel '31, mentre spariscono arie cui siamo affezionati, come «Il tricerbero umiliato». In compenso, Goffredo canta «Solo dal brando», che in teatro non si sente mai.

     

    In ogni caso, Federico Maria Sardelli dirige benissimo, vivace, energico, scattante nei ritmi di danza di cui è costellata la partitura, forse leggermente rigido nell'agogica (qualche rubato di più non guasterebbe) ma tenendo sempre in pugno orchestra e spettatori da quel grande affabulatore musicale che è. Simpatico, anche, quando nell'aria arcadica di Almirena piena di uccellini (alla prima, Händel ne portò di vivi e cinguettanti in teatro) ha tirato fuori un flautino e si è messo a spifferare insieme agli altri due flauti dolci, uno dei quali suonato dall'ottima cembalista Giulia Nuti. A parte un pungo di specialisti, suonava però, e benissimo, l'Orchestra del Maggio. E qui chapeau al trombettista, Emanuele Antoniucci, strepitoserrimo: non ditelo in giro perché è leso «storicamente informato», però ogni tanto è un balsamo per le orecchie sentire Händel suonato da strumenti moderni.

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    A duettare con lui nell'«aria con trompette» (copyright di Guglielmo Antolstoinoloff, il tenore tedesco delle Convenienze e inconvenienze teatrali di Donizetti), l'eccellente protagonista  Raffaele Pe. Sì, perché per una volta Rinaldo non è il solito mezzo en travesti, ma un controtenore (l'aveva già fatto Hogwood nel disco con David Daniels, però) e così Pe, che l'anno scorso nei teatri lombardi cantava Goffredo, in Toscana è stato promosso Rinaldo. Ottima scelta: Pe ha estensione, agilità e un volume insolito per un controtenore, indispensabile se questi titoli si fanno in teatri grandi come il cupo cubo fiorentino. In più è italiano, fa capire ogni parola, dà senso ai recitativi (sforbiciatissimi, peraltro) e ha la giusta spavalderia da primo uomo: soltanto nella prima aria ha ceduto alla tentazione di strafare, cosa che è meglio non fare mai, men che meno a voce fredda.

     

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    Ma in generale tutta la compagnia è scelta con cura. Le due donne, per esempio, sono perfettamente complementari: Carmela Remigio come Armida per la consueta personalità forte, sicché entra tenendo al guinzaglio un paio di mostri, canta (e molto bene) «Furie terribili!» e il personaggio c'è già tutto; Francesca Aspromonte come Almirena per la raffinatezza del fraseggio e un «Lascia ch'io pianga» intenso ma non sbrodolante. Funziona assai bene anche Leonardo Cortellazzi sommerso dalle piume come insolito Goffredo tenore, mentre Andrea Patucelli, Argante, ha una voce piccola e di timbro un po' indistinto, ma agilissima, e così gli angui d'Aletto e la vorace Scilla (credo di essere l'unica persona al mondo cui il libretto di Rinaldo piaccia, e di molto, come si direbbe qui), tutto sommato, fanno davvero effetto.

     

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    Poi c'è lo spettacolo mitico di superPigi. E qui il sottoscritto, che lo vide al debutto, un po' si è commosso quando è entrato Argante tutto rosso su rosso, sul celebre cavallone e con il non meno celebre mantello svolazzante. Si sono rivisti i Pizzi boys spostare i praticabili su cui stanno i personaggi vestiti da pupi siciliani (le macchine barocche e nel contempo il loro ironico disvelamento, certo), la barca d'Armida con ombrellino tiepolesco, le corazze sberluccicanti, le piume, tutto un teatro di belle statuine che risolvono le arie tripartite mettendosi in posa plastica per la parte A, in un'altra per la parte B e poi tornano nella posa precedente per la parte AA, daccapo con variazioni. Insomma una madeleine per i reduci dei favolosi Anni Ottanta, e giù rimembranze e agnizioni.

     

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    Però il fatto di ricostruire questo spettacolo è anche il simbolo desolante benché bellissimo dell'incomprensione dei teatri italiani per cosa sia oggi l'opera barocca, anzi l'opera tout court. Perché da quel Rinaldo sono passati 35 anni e intanto è cambiato tutto, la maniera di mettere in scena Händel, la società, il mondo, noi e lo stesso Rinaldo, perché le note e le parole sono le stesse, il modo con cui le leggiamo, no.

     

    Si santifica una volta di più un'idea di teatro sottratta alla storia, museificata, una pura illustrazione dove non succede nulla, nessuno fa niente se non mettersi in posa, come se in quest'opera e in Händel non ci fosse una drammaturgia, anzi come se non dovessimo neppure cercala o magari perfino non potessimo inventarla noi, qui, adesso, nel nostro mondo, trovandoci le ragioni per cui il teatro musicale barocco era assurdo per i nostri nonni e per noi invece è straordinariamente contemporaneo.

     

    Come se nel frattempo non ci fossero stati gli spettacoli di Alden a Monaco, di Carsen a Glyndebourne e anche di Spirei nel circuito lombardo, cito soltanto i primi che mi vengono in mente, e quindi oggi il posto per tutta questa bellezza inerte e inutile non sia il teatro, ma il museo.

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