Alessandro Bocci per corriere.it
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Scorbutico, polemico, incallito fumatore, l’uomo in tuta, allergico alla giacca e soprattutto alla cravatta, sembra appartenere a un’altra era e invece è modernissimo quando si chiude nel suo laboratorio e inventa un calcio che, nel momento in cui funziona, non ha eguali. Maurizio Sarri è tornato, o forse non è mai andato via. Bastava cercarlo, aspettarlo, aiutarlo. La Lazio che domina in casa dell’Atalanta è una piccola meraviglia e ci ha ricordato il Napoli più bello di De Laurentiis. Sarrismo puro, l’elogio della bellezza, che i napoletani hanno sbandierato con orgoglio durante il lungo braccio di ferro con la Juventus.
Ora Mau se lo gode la Lazio, perfetta, elegante, fatta proprio a immagine e somiglianza del suo allenatore, un calcio fatto di triangolazioni rapide e verticali, di inserimenti perfetti, di controllo esagerato del pallone in ogni zona del campo. Qualcuno lo ha paragonato al tiki taka, che ha esaltato il Barcellona di Guardiola, ma lo stesso Sarri si è affrettato a precisare che lui, con la filosofia catalana, non c’entra niente. Il controllo del gioco, nel calcio sarriano, non è mai fine a se stesso, lo sviluppo raramente è orizzontale, ma porta in fretta nell’area avversaria. Nel calcio perfetto, e in certo momenti utopico del tecnico di Figline Valdarno, ogni reparto deve muoversi in funzione dell’altro. Il collettivo prima del singolo.
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La rivoluzione, al secondo anno in biancoceleste, parte da lontano, dalla difesa con orientamento sulla palla anziché sugli avversari. Gli esterni bassi della linea a quattro sono assaltatori, gli esterni alti frecce che colpiscono al cuore ma al tempo stesso pronti a sacrificarsi in un duro lavoro di copertura che garantisca l’equilibrio necessario. I numeri spiegano la trasformazione da un anno all’altro.
La Lazio non prende gol da sei partite e 569 minuti, in totale ne ha incassati 5 contro i 19 della scorsa stagione. La differenza è qui, ma anche nella fiducia della squadra nel lavoro quotidiano a Formello. La Lazio adesso crede nel suo demiurgo. Sono stati bravi Lotito a Tare, che al secondo anno hanno deciso di accontentare, nei limiti del possibile, i desideri dell’allenatore, andando incontro alle sue richieste sul mercato.
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Sarri non è un integralista, ma il suo gioco si sviluppa secondo canoni precisi, quello che non hanno capito alla Juventus. A Torino, lo hanno ingaggiato cercando poi di snaturarlo. Un feeling mai nato che però ha portato lo stesso uno scudetto. Se lo avessero seguito nel lavoro di costruzione magari le cose sarebbero andate diversamente. Meglio per la Lazio, che non lo dice ma, sotto sotto, spera di andare oltre il sogno di ritrovare un posto in Champions.
Oggi è, insieme al Napoli e forse più del Milan, la squadra migliore, più logica, lucida, divertente. Abile a trasformarsi. Con Immobile, il capocannoniere del campionato (infortunato), cerca la verticalità. Con Felipe Anderson falso nove non dà punti di riferimento e migliora il palleggio. In ogni caso un calcio artistico, limitato all’Olimpico dalle condizioni del campo che penalizza la precisione tecnica del gioco. Sarri se ne è lamentato, come spesso degli arbitri, del calendario, del calcio ostaggio delle televisioni.
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A volte è brutale, sgradevole. Altre divertente, sarcastico come i toscani sanno essere: «Non so cosa sia il sarrismo, dovete chiederlo a mia moglie». E ride mentre se ne va da Bergamo, consapevole che è nata una stella, ma che la strada è lunga e tortuosa: «Un mese fatto bene riesce a tutti, per vincere bisogna essere bravi tutta la stagione». È la prossima sfida. La più difficile.
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