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Lettera di Alberto Mattioli a Dagospia
Caro Dago,
Dago ph Porcarelli Nell attesa legge Dagospia
arrivo cattivo ultimo dopo tanti illustri colleghi a celebrare il genetliaco di Dagospia. Meglio così. Gli anniversari sono generalmente jettatori e poi Dagospia è gggiovane, ha appena vent'anni. Poco da aggiungere a quello che è già stato celebrato. Gli italiani un minimo interessati a quel che succede nel loro disgraziato Paese si dividono in due categorie: quelli che ammettono di leggere Dagospia e quelli che mentono.
Non starò a fare l'elogio degli scoop, della titolazione irresistibile, delle invenzioni lessicali, in una parola dello stile, del pettegolezzo che diventa notizia quando spesso poi la notizia è pettegolezzo, di un'alta portineria dove passa tutto, l'alto e il basso, il sublime e il ridicolo, il bello e il brutto, frullati insieme in una commedia umana la cui autentica dimensione, esattamente come nella vita, è il grottesco. Siamo fra Victor Hugo e Almodovar.
Una boccata d'ossigeno fra un'informazione sempre più avvitata nel circuito autoreferenziale dell'intervista a Zingaretti che risponde a Renzi che risponde a Delrio o dei retroscena su quel che pensa, diciamo così, Di Maio, e una cultura avvilita nel mainstream del solito noto, del politicamente corretto e dell'obbligatoriamente bello (da qui, fra parentesi, l'attenzione daghesca per i pochi spazi ancora stimolanti e paradossalmente davvero contemporanei, tipo il cinema porno o l'opera lirica).
Su tutto, il saggio cinismo antico e italianissimo di chi sa che il mondo cambia ma gli uomini no, e che questo perpetuo agitarsi non produrrà che l'eterno ritorno del sempre uguale. Plus ça change, plus c'est la même chose: e allora tanto vale divertirsi. Chi racconterà l'Italia di questi ultimi vent'anni non potrà fare a meno di andare a smanettare Dagospia, esattamente come gli archeologi vanno a studiare gli affreschi di Pompei, a proposito di porno. A noi aficionados non resta che sperare in altri vent'anni (almeno...).
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Ciao
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