DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Marco Giusti per Dagospia
Il 2015 si porta via anche Francesco Rosi, il regista di Salvatore Giuliano e di Le mani sulla città. Due capolavori dei primissimi anni ’60 che definirono per sempre una sorta di secondo Neorealismo o di cinema nato dalla cronaca costruito sull’impegno civile che vide Rosi come punta assoluta di tutto il genere.
Giorgio Napolitano Francesco Rosi
Quasi un Guttuso del cinema, con tutto ciò anche di non positivo che questo comportava in un paese allora dominato dalla cultura del PCI e dall’impegno a tutti i costi. Al punto che, presto, come Gillo Pontecorvo, diventò un po’ schiavo della sua etichetta e i rari tentativi che fece per togliersela, come il documentario sui toreador, Il momento della verità, o il fantasy napoletano ispirato ai racconti di Giambattista Basile, C’era una volta, sembrarono una sorta di assurda devianza.
ANDREA CAMILLERI FRANCESCO ROSI
E non gli restò che tornare all’impegno e alla cronaca in anni in cui si poteva allegramente sperimentare tra vari generi. Come fecero i meno “impegnati”, diciamo, Giulio Questi o Carlo Lizzani. Ma anche un Elio Petri, per non parlare di Marco Ferreri. Rosi non arrivò mai all’Oscar, forse proprio a causa dei suoi film troppo politicamente schierati, ma ebbe una inutile nomination col tardo Tre fratelli.
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Vinse però il Leone d’Oro a Venezia con Le mani sulla città e la Palma d’Oro a Cannes con Il caso Mattei, oltre a innumerevoli David di Donatello. Proprio a Cannes, però, partirono le grandi critiche dei cinéphiles francesi, e dei loro cuginetti italiani, ai suoi film degli anni ’80, come Cronaca di una morte annunciata, tratto da Gabriel Garcia Marquez.
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A Rosi venivano rimproverati un imborghesimento e una mancanza di ispirazione che lo avevano portato a un cinema un po’ illustrativo, pieno di grosse star e ben lontano dal contatto con la realtà dei suoi primi capolavori. Va detto che, da un certo punto in poi, sembrava essersi specializzato esclusivamente in riduzione cinematografiche di grandi opere letterarie. E questo non poteva certo piacere al pubblico più impegnato politicamente dei tardi anni ’70.
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In qualche misura, Rosi, che era nato a Roma nel 1922, e nel cinema aveva fatto un po’ di tutto prima di esordire con Kean come co-regista di Vittorio Gassman e poi con La sfida, si era sentito vero discepolo solo di Luchino Visconti, che aveva seguito sul set di capolavori come La terra trema e Senso, oltre che come co-sceneggiatore di Bellissima.
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Da Visconti riprende infatti i temi dell’impegno sociale, ma riprende pure la dipendenza dalla grande narrativa italiana e il forte legame col melodramma. Così, oltre a trattare temi tratti dalla realtà e dai personaggi forti del secolo passato, assieme al suo co-sceneggiatore di sempre Tonino Guerra, pensiamo a Il caso Mattei e a Lucky Luciano, Rosi cercherà di mettere in scena le opere di maestri come Ignazio Silone, Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Primo Levi.
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Di partire sempre, in definitiva, da una vesta letteraria “alta” per rileggere la storia italiana. Salvo buttarsi nel melodramma filmato conn film come Carmen con Placido Domingo. Ricordiamo però, e lo stesso Rosi lo ha ricordato nel bellissimo libro di memorie “Io lo chiamo cinematografo”, scritto non più di due anni fa assieme a Giuseppe Tornatore, che non era entrato nel cinema come assistente solo di Rosi.
Francesco Rosi - Copyright Pizzi
Lo era stato, ad esempio, di Ettore Giannini per Carosello napoletano, di Luciano Emmer per Una domenica d’agosto e Parigi è sempre Parigi, di Monicelli per Proibito, di Luigi Zampa per Processo alla città. Ma fu importante anche l’esperienza con Raffaello Matarazzo, re del mélo dell’epoca, del quale fu assistente, su invito di Sergio Amidei, per ben tre film, Tormento, I figli di nessuno e Il tenente Giorgio. Al punto che il suo vero esordio nella regia fu molto sofferto.
Chiuse per Goffredo Alessandrini le riprese di Camicie rosse, co-diresse con Gassman Kean, e poi esordì davvero con un film forte e di cronaca alla Gomorra come La sfida, ancora oggi freschissimo. E è grandioso pure I magliari, che mostra un Alberto Sordi per noi inedito, piccolo truffatore italiano in Germania.
La Legion D\'onore a Francesco Rosi - Copyright PizziFrancesco Rosi Ettore Scola- Copyright Pizzi
Se Salvatore Giuliano e Le mani sulla città furono i suoi grandi film degli anni ’60, sono notevolissimi anche alcuni dei suoi primi film degli anni ’70 come Uomini contro, Il caso Mattei, Lucky Luciano. Credo che già Cadaveri eccellenti mostri una qualche decadenza di Rosi, uno scivolamento nel grottesco, che verrà in parte ripreso anche da Sorrentino, che non era nelle sue corde, ma è una mia opinione, mentre con Cristo si è fermato a Eboli si lancerà nelle grandi riduzioni letterarie, non sempre felicissime.
FRANCESCO ROSI E FIGLIA CAROLINA
Tra i suoi titoli anni ’80 e ’90 si può ricordare con piacere il documentario su Napoli diretto per Rai Tre nel 1992, Diario napoletano, scritto assieme al fedele amico di sempre Raffaele La Capria, mentre La tregua, il suo ultimo film, tratto dal romanzo omonimo di Primo Levi venne funestato da troppe morti di collaboratori storici (Pasqualino De Santis, Ruggero Mastroianni) e ogni tipo di guai.
Francesco Rosi con la moglie Giancarla Rosi (dalla Repubblica)
Anche se domani ci si sprecherà in dotti necrologi del Maestro, sarebbe più opportuno rileggere il lungo libro che gli ha dedicato Tornatore, che mostra un Rosi più interessante e meno pesante del previsto. Personalmente ricordo come molto affettuosa la sua ultima apparizione ai David di Donatello nel 2014, che provocò una standing ovation dei presenti. Senza bisogno di inutili premi alla carriera.
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