l eccezione alla regola

IL CINEMA DEI GIUSTI - ACCOMPAGNATO DA UN FLOP DI PROPORZIONI NOTEVOLI IN PATRIA, BUDGET DA 25 MILIONI E SOLO 3 MILIONI DI DOLLARI DI INCASSO, SI AFFACCIA DISTRATTAMENTE ANCHE DA NOI IL NUOVO FILM DIRETTO, SCRITTO E INTERPRETATO DA WARREN BEATTY DOPO BEN 15 ANNI DI ASSENZA DAGLI SCHERMI, “L’ECCEZIONE ALLA REGOLA”

 

Marco Giusti per Dagospia

 

L ECCEZIONE ALLA REGOLAL ECCEZIONE ALLA REGOLA

Accompagnato da un flop di proporzioni notevoli in patria, budget da 25 milioni e solo 3 milioni di dollari di incasso, si affaccia distrattamente anche da noi il nuovo film diretto, scritto e interpretato da Warren Beatty dopo ben 15 anni di assenza dagli schermi, L’eccezione alla regola, che traduce letteralmente il titolo americano Rules Don’t Apply. Vi dico subito che non meritava né così tanto insuccesso né di finire nella sala 11 del cinema Adriano in un mezzanino che contiene solo 25 posti come se fosse l’ultimo dei film italiani girati in digitale con due piotte di budget.

 

Non solo ha un grosso cast di attori più o meno celebri, Lily Collins, Annette Benning, Martin Sheen, Matthew Broderick, Paul Sorvino, una fotografia sontuosa di Caleb Deschanel, gli abiti magistrali di Albert Wolski ma anche una notevole ambientazione hollywoodiana a cavallo tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60.

L ECCEZIONE ALLA REGOLA  L ECCEZIONE ALLA REGOLA

 

Forse non è così attuale la scelta di costruire un ennesimo film, il terzo se non sbaglio, attorno alla figura del magnate pazzo Howard Hughes, soprattutto dopo il primo bellissimo film di Jonathan Demme, Melvin and Howard, scritto dallo stesso Bo Goldman che co-sceneggia anche questo, e dopo The Aviator di Martin Scorsese, ma, almeno, Warren Beatty, che interpreta il personaggio di Hughes dopo Jason Robards e Leonardo Di Caprio, sa di cosa stiamo parlando e conosce bene quella Hollywood.

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Erano gli anni che da playboy girava bussando alle porte della ragazze con la frase rituale “What’s new Pussycat?”, tanto che Clive Donner ci fece un film, dove perse il ruolo e al suo posto venne chiamato Peter O’Toole. E la storia delle belle ragazze, sembra 26, messe sotto contratto da Hughes, che le teneva rinchiuse nei bungalow, mangiando solo certe cose, passandogli un assegno settimanale dalla finestra con la speranza di un film che non verrà mai girato, la sapeva lui e la sapevano tutti.

 

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Mi ha raccontato Ursula Andress che anche a lei Hughes le chiese di firmare un contratto con lui, con la stessa modalità che descrive nel suo film Warren Beatty. Attesa, una cena in un ristorante, un provino farlocco dove le ragazze erano tutte vestite uguali e fotografate nello stesso modo. Lei scappò. La protagonista del film di Beatty, invece, la giovane Marla interpretata da Lily Collins, firmò.

 

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E si ritrovò a Hollywood prima con la madre, Annette Benning, poi sola con un giovane autista, Frank Forbes, interpretato da Alden Ehrenreich, che è il vero protagonista del film, in attesa della chiamata di Hughes. Sia Frank sia Marla vivono all’ombra di Hughes pensando che incontrarlo cambierà loro la vita. Gliela cambierà certo, in maniera totale, ma si troveranno di fronte un potente capitalista americano, fatto di codeina, che pensa di potersi permettere tutto e che ottiene dai suoi dipendenti tutto quello che chiede in maniera ossessiva. Il gelato banana e nocciole?

 

Il viaggio in piena notte per Managua? La visione continua dei suoi vecchi film? Hughes non è un malato di sesso come Berlusconi con le olgettine, anche se il modello è più o meno lo stesso, modello che poi seguiranno o cercheranno di seguire la gran parte dei produttori di mezzo mondo, è un uomo che segue una visione in totale libertà nella sua pazzia e che trova persone pronte a seguirlo.

 

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Non è chiaro quale strada voglia seguire il Beatty regista, e questo è il difetto maggiore del film, che è un po’ antico ma estremamente divertente. Non si capisce se vuole puntare solo sulla storia dei due ragazzi nelle mani del ricco eccentrico o vuole raccontare un po’ della vecchia Hollywood alla fine del suo primo capitalismo creativo. Alla fine non ne esce né un raccontino con morale, come per Demme, né un ritratto profondo del cuore dell’America, come per Scorsese.

 

Ma Beatty mette in scena con affetto e con uno sguardo politico, è sempre il regista di Reds, un mondo ormai lontano dove lui e i suoi amici più cari sono nati e cresciuti, sentendosi forse più vicino al vecchio Hughes che ai personaggi più giovani. C’è una scena magistrale dove Hughes seguita a non voler vedere gli avvocati della TWA che lui stesso ha chiamato. Loro stanno nello stesso albergo e seguitano a chiamarlo. E lui si rifiuta, mettendo così in crisi tutto il paese. Per noi questo è esotismo da vecchia Hollywood, per l’America di Trump è storia. Non ancora finita. In sala.