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ALZA IL VOLUME! DOPO 15 ANNI I BILANCI DELLE CASE DISCOGRAFICHE TORNANO IN POSITIVO - A TRAINARE I CONTI È IL DIGITALE, (VALE IL 45% DEGLI INTROITI) SPINTO DALLO STREAMING COME SPOTIFY E DEEZER - MA DA QUESTI SERVIZI AGLI ARTISTI ARRIVANO SOLO POCHI SPICCIOLI

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1 - SORPRESA, LA MUSICA TORNA A CRESCERE

Giuseppe Bottero per “la Stampa”

 

C’era una volta il grande malato dell’industria dell’intrattenimento: la musica. A quindici anni esatti dalla tempesta Napster, il sito che, di fatto, ha sdoganato la pirateria e dato il «la» alla svolta digitale, sui bilanci delle etichette discografiche tornano i segni più. Anche in Italia. Spiegano dalla Fimi (Federazione industria musicale italiana) che, per la prima volta da tempo, il 2014 si chiuderà con un fatturato in crescita.

 

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Certo, le cifre restano relativamente basse e lontanissime dai fasti del passato, ma sono sufficienti per far intravedere un cambio di rotta. Nei primi nove mesi il mercato italiano ha aumentato i ricavi del 5%, e si aspetta un’ulteriore scossa dal Natale. A trainare i conti è il digitale, che rappresenta il 45% degli introiti, spinto, a sua volta, dai servizi streaming, in particolare quelli in abbonamento, da Spotify a Deezer, passando Google Play e TimMusic, che salgono del 109%. Visto che la fruizione cambia, ora bisogna tener conto pure dei video: i proventi dai portali supportati dalla pubblicità come YouTube e Vevo balzano del 78%.

 

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In picchiata i download: -19%, mentre il vecchio cd tiene botta: -4%, compensato dal boom del vinile che, pur rappresentando una nicchia, fa segnare un +66%. Il trend non è solo italiano: nel primo trimestre 2014 i clienti di Kobalt Music Publishing, realtà che raggruppa i produttori musicali del Vecchio Continente e raccoglie le loro royalties, hanno intascato tramite Spotify il 13% in più rispetto a iTunes.

 

Il Financial Times, che parla di «Spotify Effect», spiega che anche la pirateria è un ricordo lontano. Che bisogno c’è di scaricare quando tutto - o quasi - è disponibile online?

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A innescare la «terza rivoluzione industriale», per una volta, non sono stati i giganti statunitensi, bensì Spotify, il servizio svedese creato nel 2006 e sbarcato in Italia nel 2013. Nella creatura del trentunenne Daniel Ek hanno investito Goldman Sachs, Morgan Stanley e Jp Morgan: ora vale almeno quattro miliardi di dollari e ha un unico, gigantesco problema. Non fa soldi.

 

Secondo quanto ricostruito da «Bloomberg Business», nell’ultimo anno il rosso viaggiava attorno a quota 200 milioni. La speranza è aumentare il numero di abbonati al servizio premium (i brani sono trasmessi senza interruzioni pubblicitarie e a qualità superiore), che adesso rappresenta solo il 25% dei 40 milioni di utenti iscritti. Il timore è che sul mercato dello streaming si affacci Apple: tre miliardi per il servizio Beats non sono stati spesi a caso e la «potenza di fuoco» di Cupertino potrebbe far saltare il tavolo.

 

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È il segno che l’industria musicale è tornata sexy. Ma cosa è successo? «Molto semplicemente, un prodotto si è trasformato in un servizio», ragiona Lino Prencipe, capo del settore digitale di Sony. E funziona. «In Italia - dice Prencipe - il download non è mai decollato, lo streaming sì. Le società tecnologiche hanno creato infrastrutture potenti, e hanno fame di contenuti. La vera sfida, per noi, ora è monetizzarli».

 

2 - SPOTIFY: IL SUCCESSO NON PAGA. PER GLI ARTISTI SOLO LE BRICIOLE

Giuseppe Bottero per “la Stampa”

 

Immaginate un Vasco Rossi debuttante. Immaginatelo con un singolo pazzesco per le mani, «Albachiara». Se, come la maggior parte degli artisti di oggi, decidesse di lanciarlo sul web, probabilmente si affiderebbe a Spotify. Un milione di ascolti più tardi, la scoperta: nella migliore delle ipotesi si sarebbe messo in tasca 9.500 euro.

 

google censura p p t google censura p p t

È un calcolo grossolano, ma rende l’idea: la guerra degli incassi si combatte a colpi di centesimi. Anzi, meno: Spotify paga ai proprietari dei diritti tra 0,006 e 0,0084 dollari per ascolto. È chiaro che gli incassi dal digitale sono solo una piccola parte dei guadagni di un artista, una leva per mettere in moto i meccanismi del marketing e dei concerti. Ma come ci si sente a scoprire che i diritti Siae ancora oggi rendono al grande autore Mogol 700 mila euro l’anno? Nell’era della musica liquida la forbice continua a restringersi: spiega «The Guardian» che per ogni pezzo scaricato (legalmente) all’autore finisce meno di un centesimo.

 

E qualcuno non ci sta. A inaugurare il fronte anti-Spotify è stato Thom Yorke, voce dei Radiohead. Un anno fa ha tolto la sua musica dal sito. Poi è stato il turno dei Black Keys e di Beyoncé. Nei giorni scorsi ha fatto rumore la mossa di Taylor Swift: via tutto, perché «la musica non deve essere gratis».

 

Può darsi che sia un caso, ma dal 27 ottobre a oggi ha piazzato 1 milione e 200 mila copie del suo album «1989», il più venduto dell’anno.

Spotify tira dritto: «Sempre più artisti stanno salendo a bordo», spiega Veronica Diquattro, responsabile del mercato italiano. «In molti Paesi lo streaming sta generando più profitti delle vendite digitali e ci sono emergenti come Cazzette o Lorde che, esplosi grazie a noi, guadagnano cifre significative. Andarsene? Poco ragionevole: miliardi di persone possono ascoltare brani su YouTube e altri milioni di utenti, così, ritorneranno alla pirateria».