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Wlodek Goldkorn per “la Repubblica”
Capita che il male non rasenti la banalità, anzi, che proprio quando si tratta di un nazista, il Male non sia una serie di procedure burocratiche o stupidità (come invece ipotizzava Hannah Arendt parlando di Eichmann), ma assuma le sembianze di una persona e diventi pensiero egemone.
È il caso di Alfred Rosenberg, architetto di mestiere, classe 1892, nato in Estonia a Reval, oggi Tallinn, studente a Riga in Lettonia, laureato a Mosca, innamorato della letteratura classica russa e che a partire dagli anni Venti diventa il principale ideologo del nazismo, teorico dell’antisemitismo radicale e inventore di una di mistica alternativa al cristianesimo.
Condannato a morte a Norimberga e impiccato, alla storia è passato (si fa per dire) per Il mito del ventesimo secolo dove tre anni prima dell’arrivo di Hitler al potere, affascinato dalla lettura dei Protocolli dei savi di Sion e traumatizzato dalla rivoluzione bolscevica (lui all’epoca era a Mosca), narrava di un presunto complotto giudeo- comunista ai danni dell’umanità e della Germania. Ma poi andava oltre: teorizzava appunto la mistica del sangue e della razza ariana e sosteneva che Gesù non era ebreo e che siano state le chiese cristiane a falsificare la “vera storia”.
Questa mitologia, per quanto oggi possa sembrare ridicola, ai tempi era di forte richiamo, anche perché attingeva a fonti potenti come Wagner, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche e via elencando. Tanto che Il mito del ventesimo secolo fu il secondo libro più venduto del Reich (dopo il Mein Kampf).
Il radicalismo di Rosenberg era tale da suscitare una certa diffidenza da parte dello stesso Führer (diffidenza dettata dalla tattica, i valori erano condivisi) e l’inimicizia di gerarchi come Goebbels, Himmler e Goering. Per sfogare le frustrazioni (non divenne mai il numero due del regime) e probabilmente per tramandare un insegnamento alle future generazioni, Rosenberg, a partire dal 1934 tenne un diario. Che, finita la guerra andò disperso.
È in un uscita in questi giorni Il diario perduto del nazismo. I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg e del Terzo Reich, scritto da Robert K. Wittman, un ex agente del Fbi, e da David Kinney, giornalista premio Pulitzer (Newton Compton).
Al centro della trama, oltre al nazista e alle sue carte c’è l’uomo che portò alla sua condanna a morte, Robert Kempner. Kempner, a sua volta, era un ebreo tedesco, avvocato intelligente e spregiudicato, fuggito nel 1936 dalla Germania, approdato negli Stati Uniti, collaboratore dei servizi segreti americani e infine procuratore al celebre processo dei gerarchi del Terzo Reich.
Affascinante, spietato (negli interrogatori era durissimo con gli imputati, al limite del lecito), Kempner aveva un certo successo con le donne; le sue assistenti diventavano le sue amanti. Non si tratta di un pettegolezzo in un libro che in apparenza potrebbe risultare sensazionalistico - e non lo è grazie alla buona ricostruzione storica - ma di un dettaglio fondamentale. Le carte di Rosenberg, finito il processo, Kempner le ha portate negli Usa. Ma non lo sapeva nessuno.
La storia del ritrovamento è una specie di thriller e raccontarla toglierebbe gusto alla lettura. Per sommi capi: le carte le ha scoperte, con l’aiuto di un archivista del Museo dell’Olocausto, negli anni Novanta, l’agente del Fbi Wittman (uno degli autori del volume). Non erano tutte, erano disordinate ed erano gestite dall’ex-assistente di Kempner. E lì sono sorte le prime difficoltà nella trasmissione del tesoro al Museo. Successivamente, e diversi anni dopo, Wittman, ormai pensionato, ritrovò altre carte, in modo da completare il diario sparito.
Che dal 2013 è a Washington, a disposizione degli studiosi. Detto così, sembra semplice, ma nel frattempo i documenti finirono in mano a un altro personaggio strano che ebbe una grande influenza sulla ex assistente, e che tentò di portarle in Canada. La storia di quel diario, circa 400 cartelle ci dice alcune cose. La prima: era interessante per gli storici entrare nelle stanze segrete della cerchia ristretta di Hitler. Rosenberg racconta infatti, dal suo punto di vista, le motivazioni di certe decisioni prese dal Führer, nonché le dinamiche di potere degli uomini al vertice del Reich.
La seconda cosa che mettono in rilievo gli autori è la personalità controversa di Kempner. Il più famoso tra gli accusatori di Norimberga non solo nascose in casa sua documenti che avrebbe dovuto depositare negli archivi delle istituzioni statali, ma aiutò pure, in quanto avvocato, la vedova di Goering. Insomma, l’uomo non era l’incarnazione del Bene.
E Rosenberg? Cresciuto in città periferiche e multiculturali Tallin e Riga, dove abitavano tedeschi, estoni, lettoni, russi, ebrei e che appartenevano all’Impero zarista, decise che la purezza della razza era l’unico valore assoluto, quasi a rinnegare la propria infanzia e gioventù, quasi a cercare di essere più tedesco dei tedeschi: capita ai neofiti.
Cercava di muovere la guerra a oltranza contro le chiese, ma Hitler non lo seguì (o meglio gli diede retta solo parzialmente), tanto che il Mito del ventesimo secolo finì sull’Indice dei libri proibiti dalla Santa Sede, mentre Mein Kampf, no.
Durante la guerra fu ministro per i territori occupati dell’Est, ma si occupava anche della razzia delle opere d’arte all’Ovest, soprattutto a Parigi e in Francia. Il libro racconta bene la natura profondamente corrotta dei gerarchi nazisti in lite tra di loro su come accaparrarsi i tesori delle vittime. Su una cosa erano unanimi e Rosenberg lo narra nel suo Diario. In una riunione un anno prima dell’invasione dell’Urss, discutevano degli ebrei.
Lui, Rosenberg parlava di futuri e terribili pogrom in terre russe e ucraine. Hitler ipotizzò che di fronte ai massacri l’Europa tutta si sarebbe levata in difesa degli ebrei. I nazisti risero fragorosamente: capirono che quella del Führer era una barzelletta. Avevano ragione. Ultima annotazione: gli autori più volte usano il termine “razza ebraica”. Nel contesto di un libro sull’ideologo della razza non è elegantissimo.
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