
DAGOREPORT - L'ARDUO COMPITO DI SERGIO MATTARELLA: FARE DA ARBITRO ALLA POLITICA ITALIANA IN…
1. T-SHIRT, SCARPE E BORSE JULIAN COME IL CHE ECCO IL BRAND ASSANGE -
WIKILEAKS LANCIA UNA LINEA DI MERCHANDISING
Vittorio Zucconi per “la Repubblica”
In principio fu il verbo. Alla fine fu la t-shirt. La rivoluzione di Julian Assange, del fondatore di WikiLeaks che scosse le cancellerie e i palazzi del potere, passa dalla rivelazione dei segreti altrui alla vendita di maglie, borse, pennette usb, scarpe e tutto ciò che il suo nome e il suo volto possano vendere. Naturalmente, e ufficialmente, per la Causa.
La transizione da martire della trasparenza a “brand” per negozi di souvenir, a marchio per fare merchandising globale come un Michael Jordan, un Leo Messi, un Paul Newman, una Jessica Simpson o una Coca Cola qualsiasi, non è stata — ricostruisce il New York Times che ha prodotto la fuga di notizie sul profeta della fuga di notizie — idea sua. L’ha avuta un astuto uomo d’affari islandese, Ólafur Vignir Sigurvinsson, che già aveva collaborato con lui affittandogli un server per i dati.
le magliette con la faccia di assange
Sigurvinsson, che doveva avere letto, come certamente Beppe Grillo in Italia, un fondamentale saggio del 1997 intitolato La commercializzazione del dissenso , nel quale si spiegava come anche le pulsioni e gli eroi antisistema diventino poi perfetti veicoli di vendita e di profitti dentro il sistema, ha avvicinato Assange nel suo esilio londinese presso l’ambasciata ecuadoregna.
Con l’esempio luminoso della foto del “Che” con il baschetto, il santino di Ernesto Che Guevara scattato dal fotografo Albert Korda nel 1960 e riprodotta su milioni di indumenti, dai giubbotti ai bikini, l’islandese ha spiegato ad Assange la fantastica commerciabilità del suo volto e del suo, appunto, “brand”. E Assange, secondo il New York Times , si è facilmente lasciato convincere.
Il meccanismo della cooptazione dell’antisistema nel sistema si deve però fondare sul gradimento del rivoluzionario da maglietta e del guerrigliero da zainetto. Assange, che per primo fece diffondere messaggi segreti, cablogrammi imbarazzanti, immagini rubate ai computer del governo americano, demolendo la propaganda di Washington più di mille attentati, ha un indice di gradimento e di riconoscibilità altissimo.
le magliette con la faccia di assange
Con l’eccezione comprensibile degli Stati Uniti, la percentuale di fan dell’australiano è attorno all’80 per cento e potrebbe essere eletto senatore australiano in contumacia. Un dato troppo ghiotto per non solleticare l’appetito dei “marketer”, dei moschettieri di mercanzia su licenza.
La gamma dei prodotti che porteranno il volto stilizzato di un ben pettinato Julian Assange e il suo appello a “Tell the Truth”, a dire la verità, è vertiginosamente infinita. Tutto il catalogo dei “tchotchkes”, come nello yiddish alla newyorkese si chiamano le cianfrusaglie e i capi inutili che ballano per casa, si presta allo sfruttamento commerciale del marchio.
Già oggi si vendono bene magliette con il marchio di WikiLeaks stritolato da un panzer, zatteroni con tacchi altissimi per signore della inglese Russel & Bromley per 200 euro, borse della spesa per ben 250. Ma nessuno dei prodotti con il nome o il volto, del profeta della trasparenza fruttava un solo centesimo ad Assange e l’intervento dell’affarista islandese metterà fine a questo scandalo.
Un volume di 46 pagine, con tutte le indicazioni grafiche, i criteri, i colori da utilizzare per Wiki-Leaks e Assange, e naturalmente le commissioni da versare, è stato approvato da Julian. Un contratto è già stato firmato con un gigante indiano delle produzioni di paccottiglia su licenza, la Bradford Licensing India, che controlla il diritti per i marchi di Penthouse e della lega basket americana, la Nba, poi con la Paris Arabesque, detentrice di tutto il merchandising attorno a Marilyn Monroe ed Elvis Presley.
«WikiLeaks può diventare una delle Top 100 brand del mondo» gongola l’islandese, spalla a spalla con le regine del marketing come MacDonald’s, Coca, Pepsi, Apple, Playboy, Disney.
Mischiare la purezza rivoluzionaria di WikiLeaks e di Assange con le orecchie di Topolino o le conigliette di Hugh Hefner potrebbe turbare i fondamentalisti, se non fosse per la Causa. Ma le leggi del consumismo che si crede anti-sistema hanno ampiamente dimostrato come non sia necessario essere comunisti per venerare i santini del “Che” né avere visitato i tempi di Disney per comperare peluche in un Disney Store.
Basterà che milioni di clienti, soprattutto nella fascia più appetita, quella fra i 16 e i 40 anni, vogliano sentirsi parte di un movimento globale per la “verità” e manifestino i propri palpiti rivoluzionari comperando uno zainetto o una felpa. Le insidiose contraddizioni ideologiche fra la sfacciata commercializzazione capitalistica di prodotti fabbricati in India e le intenzioni disvelatrici degli orrori capitalistici di WikiLeaks non distoglieranno i clienti più di quanto non li turbi portare sulle mutande dei bikini il volto austero del Che.
Non è stato rivelato quale percentuale andrà nelle tasche di Julian Assange, afflitto da costosi procedimenti penali per molestie sessuali in Svezia con richiesta di estradizione e atteso dalla minaccia di processo per spionaggio semmai mettesse piede negli Usa. Ma ai futuri consumatori di t-shirt, di cappellini e di altri prodotti autorizzati (occhio alla mercanzia taroccata) poco importano i rischi di incoerenza.
Come coloro che indossano la biancheria autorizzata da Micheal Jordan si sentono per un istante giganti del basket, così i compratori della “Linea Assange” potranno avvertire, all’atto dell’acquisto, l’inoffensivo brivido della trasgressione contro il Grande Fratello. Arriva la rivoluzione e finalmente ho qualcosa da mettermi.
2.VIDEO - IL TRAILER DI CITIZENFOUR, DOCUMENTARIO SU EDWARD SNOWDEN
3. DATAGATE, SNOWDEN NON È PIÙ SOLO
Giulia d’Agnolo Vallan per “il Manifesto”
http://ilmanifesto.info/datagate-snowden-non-e-piu-solo/
MANIFESTAZIONE ANTI DATAGATE YES WE SCAN OBAMA
È stata un’ovazione calorosissima, a più riprese, quella che ha accolto «il cast» di Citizenfour al suo arrivo sul palco dell’Alice Tully Hall, un’ovazione di enorme gratitudine, di quelle che si riservano agli eroi. L’attesissimo documentario di Laura Poitras su Edward Snowden ha avuto la sua prima mondiale venerdì sera al New York Film Festival, prima di arrivare nelle sale Usa il 24 ottobre e subito dopo in parecchie città d’Europa (purtroppo in Italia non ha ancora un distributore).
Ambientato tra il gennaio 2013, quando Snowden si è messo per la prima volta in contatto con Poitras, dopo aver deciso di rilasciare i documenti segreti della National Security Agency, e il luglio scorso, in occasione di un nuovo incontro tra Snowden, la regista e il giornalista inglese Glenn Greenwald, il film è girato nel mood freddo, inquietante e preciso di un thriller (la montatrice, Mathilde Bonnefoy, ha lavorato con Tom Tykwer), zigzagando, come farebbe Jason Bourne, tra una rete di capitali (Rio de Janeiro, Hong Kong, Londra, Bruxelles, Berlino, Mosca….) che comunica anche visceralmente la globalità dell’intreccio.
datagate INTERNET GRANDE FRATELLO
Niente voice over, niente macchina in continuo movimento, una costruzione calma, studiatissima, quasi paranoica verrebbe da dire, in cui anche i colpi di scena arrivano in modo soft: Citizenfour ha ambizioni, ritmi e texture completamente diversi dal tipico documentario inchiesta, anche se alla fine, in una semplice, bellissima, inquadratura presa di notte dall’esterno di una casa, «scopriamo » che la compagna di Snowden, la ballerina Lindsay Mills, è andata a vivere con lui a Mosca e, soprattutto, che Glenn Greenwald sta già lavorando con un altro whistleblower, su documenti segreti relativi a un altro braccio del governo Usa, riguardanti il programma dei droni e che implicherebbero in prima persona il presidente degli Stati uniti.
SISTEMA DI SPIONAGGIO FRANCESE SECONDO LE MONDE
Lo apprendiamo da piccoli squarci dei foglietti di carta scritti a mano che Greenwald passa a Snowden durante il loro ultimo incontro. «È un uomo molto coraggioso», dice Snowden, e poi ancora «è ridicolo» si lascia scappare con espressione incredula quando uno dei foglietti dice che oggi il governo americano avrebbe 1.2 milioni di persone sulla sua watch list. Quando quella conversazione quasi muta si conclude, i foglietti vengono stracciati in frammenti piccolissimi.
Non sappiamo veramente quali informazioni contiene questa nuova leak , e quando arriveranno, ma il messaggio su cui chiude Citizenfour è chiaro: Edward Snowden non è (più) solo. E Poitras gioca quella rivelazione (ventilata da CNN già da quest’estate) non tanto per il suo valore di suspense ma come un dato fatto, il suo è un film che vuole essere più del ritratto di un’eccezione, una lucida chiamata alle armi.
La storia di Laura Poitras e Edward Snowden è iniziata via mail.
È stato lui a contattarla, perché sapeva che stava lavorando a un film sui programmi di sorveglianza segreti del governo Usa, di cui lei stessa era stata vittima, a partire dal 2006, durante la lavorazione del suo primo documentario, My Country My Country, sulla guerra in Iraq. Sullo schermo vediamo i testi di quei loro primi scambi, in cui l’allora tecnico dell’azienda informatica Booz Allen Hamilton (consulenti abituali della NSA), nome in codice Citizenfour, annuncia di volerle affidare i documenti relativi a quella che lui definisce «la peggiore macchina di oppressione mai creata nella storia dell’umanita».
OBAMA ASCOLTA INTERCETTA CYBER
Personaggio chiave del film, Poitras è fisicamente quasi invisibile (sentiamo ogni tanto la sua voce morbida, vediamo un’immagine fuggente in uno specchio, le sue risposte telegrafiche alle mail di Snowden scorrono sullo schermo…), ma la sua è una presenza potentissima, la presenza di un architetto. Dalla galleria buia in cui è ambientata la prima parte del film, usciamo alla luce quando la regista, insieme a Glenn Greenwald (che Snowden le aveva suggerito di contattare), e reporter del Guardian Ewen MacAskill, arrivano a Hong Kong, dove avevano appuntamento con Snowden.
Il cuore di Citizenfour è infatti nella camera d’albergo del Mira Hotel, dove i tre giornalisti lo hanno incontrato per una settimana a partire dal 3 giugno, e da dove hanno iniziato a inviare gli articoli basati sui suoi documenti. Poitras filma le conversazioni tra giornalisti e Snowden, intervenendo raramente. La prima cosa che colpisce di lui è che sembra ancora più giovane di quanto risultasse nel video rilasciato poco prima di scomparire da Hong Kong, per poi riaffiorare all’aeroporto di Mosca.
L’altra è la chiarezza con cui spiega le sue ragioni e con cui ha pianificato la sua decisione. Un ragazzo, seduto su un letto bianco sempre sfatto, le magliette che cambiano colore con il passare dei giorni e l’espressione che si fa più stanca ma anche più sollevata, mano a mano che la sua «storia» prende una vita che lui non potrà controllare più (il primo articolo di Greenwald uscito sul Guardian è del 5 giugno). L’atmosfera ha una tranquillità paranoica. Il telefono dell’albergo è staccato «perché può raccogliere informazioni anche quando la cornetta non è alzata».
Un test dell’allarme antincendio lo manda nel panico, ma in quello che succede non c’è mai traccia di dubbio. È chiaro anche che Snowden ha lasciato interamente ai giornalisti la scelta di come e quando rendere pubblici i documenti. E che non ha mai pensato di rimanere una fonte nascosta. Anzi, a un certo punto, chiede che gli venga dipinto «un bersaglio sulla schiena». La sua è meno una voglia di protagonismo che, ammette, un modo di dire fuck you, questa è un’ingiustizia troppo grossa.
Glenn Greenwald e il fidanzato Miranda
Dalle Hawai (dove abitava e da cui se ne era andato senza avvisare nessuno) gli dicono che davanti a casa sua ci sono dei camioncini sospetti e che sta succedendo qualcosa con il suo conto in banca…Il governo americano si sta avvicinando. Ma anche quando Snowden viene trovato ed è costretto a scappare dal Mira, il film non si scompone. Si rasa la barba, cerca di pettinarsi in un altro modo per rendersi meno riconoscibile. Con quella stessa calma dolce, nervosa, con cui parla. Un personaggio più da Eastwood che da Oliver Stone.
glenn greenwald e david miranda
E Poitras stacca solo ogni tanto «fuori», sulle superfici di vetro e metallo dei grattacieli di Hong Kong, imperturbabili. La materia è puro LeCarrè, ma il protagonista di questo film non è «il traditore» della patria che il governo americano vorrebbe processare per spionaggio. E una volta che Citizenfour arriverà in sala sarà ancora più difficile rendere credibile quel ritratto. Ad accompagnare l’uscita del film, sono previste apparizioni virtuali di Snowden un po’ da tutte le parti.
Già ieri una lunga intervista via skype con Janet Mayer, del New Yorker, era accessibile via streaming. Anche The Nation ha postato gli stralci di un’intervista condotta quest’estate a Mosca. La storia di Snowden è ancora in progress. E il film non risponde volutamente a parecchie domande (tra cui cosa c’è nel resto dei documenti e dove sono custoditi). Ieri però sul sito di Greenwald e Poitras, The Intercept, è apparso un altro articolo tratto da ciò che contengono. Ma, grazie a Citizenfour, il suo caso sta per diventare molto più pubblico. E non poteva essere presentato meglio di così.
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