DAGOREPORT: PD, PARTITO DISTOPICO – L’INTERVISTA DI FRANCESCHINI SU “REPUBBLICA” SI PUÒ…
Ernesto Assante per “la Repubblica”
Jim Morrison è morto nel 1971, Ray Manzarek lo scorso anno: i Doors non ci sono più. John Densmore, batterista del gruppo (che formò con Morrison, Manzarek e il chitarrista Robbie Krieger a metà anni 60), ha pensato che il modo migliore per salutare per l’ultima volta la band fosse quello di dare alle stampe (in dvd) un film, Feast of friends , realizzato durante il tour del 1968, mai pubblicato prima: l’unico film sui Doors fatto dai Doors stessi.
La band iniziò a girarlo e a produrlo ma non lo finì mai a causa dei problemi legali che avevano coinvolto Morrison dopo i concerti a Miami, dove era stato arrestato sul palco per “atti osceni”. Morrison portò i nastri con sé a Parigi nel 1971: leggenda vuole che li avesse lasciati a casa di un amico in una busta pochi giorni prima di morire.
“Bootleg” e spezzoni in realtà sono circolati negli ultimi 45 anni, ma solo oggi il film vede la luce: restaurato, finalmente completato con molti inediti (compresa un’esecuzione straordinaria di The end del 1967).
«Quelle registrazioni non nacquero per caso», sottolinea Densmore, raggiunto al telefono nella sua casa in California, «Jim e Ray si erano conosciuti alla scuola di cinema, avevano entrambi un grande amore per le immagini, e anche a me e a Robbie piaceva l’idea di raccontarci in un film. Feast of friend è nato così: un pomeriggio mentre facevamo le prove ci siamo detti che sarebbe stata una buona idea filmare quel che facevamo. Siamo stati i primi, e ancora oggi vado fiero di quel lavoro».
Prova nostalgia nel rivedere quelle immagini?
«Per forza, vedere Jim e Ray vivi fa un effetto strano, e mi commuove. Eravamo ragazzi, facevamo grandi cose. Questo film, con il suo bianco e nero, mostra quel che eravamo e non tornerà mai più. Ci sono le nostre performance, la nostra giovane esuberanza, l’entusiasmo. E grande musica».
Cosa rendeva grandi i Doors?
«L’alchimia che si crea in un gruppo è dovuta a una sorta di comunione di spiriti. Avevamo caratteri molto diversi, in qualche maniera rappresentavamo bene il melting pot culturale dell’America: io arrivavo dal jazz, Robbie aveva un forte background nel flamenco e nel folk, Ray era radicato nel blues ma aveva avuto un’educazione musicale classica, e poi c’era Jim, colto e passionale, al quale uscivano le parole anche dalle orecchie. Era eccessivo e potente, ma anche dolce e gentile. Questo miscuglio era la grandezza dei Doors».
Quando Jim cantava «vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso» era la perfetta fotografia dei tempi.
«Vero, ma l’arte è sempre stata lo specchio del mondo. Puoi non esserne consapevole, ma è così. Sempre. Attorno a noi c’era il Vietnam, c’erano il movimento per la pace, quello per i diritti civili, quello delle donne, le rivolte giovanili, noi non potevamo non riflettere tutto questo».
Gli anni Sessanta, il sogno di cambiare il mondo...
«Non mi piace quando sento dire che quegli anni non hanno portato a nulla, che sono stati un fallimento, perché non è vero. I semi gettati allora, quelli della democrazia, della pace, dei diritti civili, delle donne, sono semi grandi che hanno bisogno di tempo e di cura per crescere. Ma sono stati gettati allora, molte cose sono cambiate, e altre da quei semi germoglieranno. Il nostro compito è dare acqua a quei semi».
Oggi la sua attività principale è quella di scrittore. E la musica?
«Scrivere mi entusiasma. Il che non vuol dire che la musica non sia nel mio cuore, anche perché, come mi è accaduto di recente, ho la fortuna di poter suonare con persone come Santana o Eddie Vedder. Mi sono sempre concentrato su cose in grado di caricare le mie cellule cerebrali, di farmi vedere le cose in maniera diversa.
Oggi il business musicale è diventato molto più difficile, siamo nel bel mezzo di una rivoluzione digitale, con Internet, lo streaming, il downloading. Ma credo ci sia troppa ansia di successo, meno voglia di sperimentare. Per noi il successo era solo la conseguenza di quello che facevamo, avremmo fatto la nostra musica comunque ».
I Doors sono ancora in auge...
«Il successo è fatto essenzialmente di tre componenti. La prima, inevitabile, è la fortuna, anzi il “timing”, come quello di un buon batterista: essere al posto giusto nel momento giusto.
La seconda è la testardaggine, l’impegno, che fa da collante tra la prima e la terza, che è il talento. E l’ordine d’importanza è davvero questo, lo dimostra il fatto che tanti artisti hanno successo senza talento, così come tantissimi hanno talento ma non il successo. Il mito dei Doors resiste perché la nostra musica parla ancora a chi l’ascolta».
Cosa avrebbe fatto se non ci fosse stata la band?
«Proprio non lo so. Da ragazzo amavo la musica più di ogni altra cosa, ma non immaginavo che avrei potuto “pagarci le bollette”, e invece eccomi ancora qui a parlare di noi dopo tutti questi anni».
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