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Massimo Gaggi per il ''Corriere della Sera''
Richard Jewell, la guardia giurata che nel 1996 sventò un attentato durante le Olimpiadi di Atlanta, venne trasformato in poche ore da eroe in presunto terrorista per i sospetti dell’Fbi. Una reputazione distrutta dal megafono della stampa per 88 lunghi giorni. Poi arrivò il proscioglimento totale. Ma anche dopo le scuse dei federali e gli indennizzi ricevuti dalle tv, Richard, ormai mentalmente condannato dall’opinione pubblica, non recuperò mai la sua immagine eroica e nemmeno la sua dignità.
Come tanti altri film, Richard Jewell, la pellicola di Clint Eastwood che uscirà negli Usa il 12 dicembre, racconta una storia vera che fa riflettere su angoli poco illuminati della realtà sociale americana. Ma questo del grande regista e attore americano, una delle poche figure di Hollywood schierate sul fronte conservatore, politicamente attivo fino al punto di calcare il palco delle convention del partito repubblicano, è anche un film dal sapore politico che, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali, prende di mira le due bestie nere di Donald Trump: la stampa e i poliziotti federali che indagano su di lui.
In quella che, almeno dal trailer, sembra la scena-madre del film, Jewell (interpretato da Paul Walter) viene messo con le spalle al muro con un perentorio «hai contro le forze più potenti, i media e il governo americano». Richard è sospettato anche perchè — poliziotto fallito che diventa vigilante privato, obeso, solitario — può essere facilmente dipinto nei panni dell’asociale rancoroso, in cerca di vendetta.
Quella di Eastwood è una denuncia, ma anche la trasposizione sullo schermo di un «cambio di stagione» nel rapporto di fiducia col pubblico che giornali e televisioni già vivono da tempo.
«È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente»: da L’ultima minaccia, il film del 1952 nel quale Humhpery Bogart fa ascoltare all’uomo più potente della città l’avvio della stampa del giornale che denuncia i suoi crimini, a Tutti gli uomini del presidente, la trasposizione cinematografica dell’inchiesta del Washington Post che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni, il ruolo di indagine e critica dei media, essenziale in democrazia, ha fatto a lungo parte della cultura popolare americana. Un rispetto conquistato per l’efficacia del ruolo istituzionale svolto da giornali e tv, ma anche grazie alle storie hollywoodiane di giornalisti trasformati in eroi.
Negli ultimi anni però, con la perdita d fiducia nelle istituzioni — accelerata da alcuni aspetti della cultura digitale — che ha travolto non solo parlamenti e accademie, ma anche l’informazione, la fiducia nella stampa ha subito duri colpi. Accentuati dalla difficoltà di fornire informazioni equilibrate in un clima politico sempre più polarizzato.
Ne ha approfittato Donald Trump che, criticato fin dal suo insediamento per le esternazioni brutali, le affermazioni false e gli attacchi ai meccanismi di bilanciamento della democrazia americana, ha reagito con veemenza attaccando i giornalisti. E quando l’Fbi ha indagato sui suoi comportamenti sospetti, anche i «federali» sono diventati nei tweet del presidente pericolosi nemici dell’America.
La riflessione critica di Eastwood ha qualche precedente: anche vecchi film come Quarto potere di Orson Welles o Diritto di cronaca, con la giornalista (Sally Field) che da cacciatrice sulle orme dei presunti misfatti del figlio di un criminale (Paul Newman), ci hanno fatto riflettere su eccessi e abusi a volte commessi anche dalla stampa. Ma, in questo momento di scontri esasperati, sarà usato anche come arma politica.
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