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Marco Giusti per Dagospia
“Appena ti vedo ti faccio il più bel pompino della tua vita” cinguetta l’attricetta per ricambiare l’amante potente della raccomandazione a “Domenica In”. “Chi dobbiamo beccare?”, chiede il poliziotto giovane. “Mario Chiesa, socialista”, gli risponde Di Pietro. Ci siamo. Benvenuti nel mondo di 1992. Il futuro non è ancora stato scritto, megafiction alla HBO o megafilm prodotto dalla Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Sky Atlantic, diretto da Giuseppe Gagliardi, il regista di Tatanka, scritto da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo da un’idea di Stefano Accorsi.
Magari col nostro passato, non proprio glorioso, di vent’anni fa possono rinascere anche il nostro cinema e la nostra fiction. E pensare che abbiamo avuto il mal di pancia per tutti questi anni… Comunque, gran lancio a Berlino, dove ha inaugurato la nuova sezione tv, presentazione extralusso a Roma con seratona cafonal un po’ trionfalistica. Del resto è già stato venduto in varie parti del mondo e già si pensa ai sequel, 1993, 1994…
Ne abbiamo viste solo due delle dieci puntate sul come eravamo nel 1992, ma abbiamo capito bene l’impostazione. Più da Boardwalk Empire o Gomorra, insomma, che da biopic alla Beppe Fiorello. E’ il format Sky, insomma, a imporre il racconto di ogni puntata e la costruzione dei personaggi. Certo, non l’abbiamo vissuta così, noi che c’eravamo, ma Gagliardi e i suoi sceneggiatori riprendono bene l’euforia del 1992 e il mischione di realtà e tv che ci regalò nuove star come Paolo Brosio sempre fermo davanti al Palazzo di Giustizia di Milano collegato con Emilio Fede.
Del resto, allora, era la tv a raccontare perfettamente quello che stavamo vivendo. Non sapevamo, allora, che dopo ci sarebbe stato un disastro che ci sembrò senza fine. Nella fiction, diretta benissimo da Gagliardi, che si dimostra davvero uno dei migliori registi italiani del momento, gli sceneggiatori mischiano la realtà di Mani Pulite, l’ascesa della Lega, la fine di Craxi, la decisione di scendere in campo di Berlusconi, la tv del tempo, dalle ragazzine di “Non è la Rai” alla Cuccarini, con la finzione di personaggi che dovrebbero raccontare l’aria del tempo.
C’è Leonardo Notte, un perfetto Stefano Accorsi, consulente pubblicitario di Publitalia, legatissimo a Dell’Utri, che intuisce la potenzialità di un Berlusconi politico. C’è Veronica Castello, la stavolta davvero esplosiva Miriam Leoni, aspirante soubrette che sogna di diventare come Lorella Cuccarini e vuole andare a “Domenica In”.
Si divide tra il suo amico pubblicitario pubblicitario e il potente Michele Mainaghi, cioè Tommaso Ragno, che farà la telefonata giusta a qualche alto dirigente della Rai. Nelle prime scene la vediamo piangere per la morte della madre di fronte a Mainaghi, che non l’ha spinta abbastanza in tv. Poi si presenta a casa del pubblicitario con la frase “Non sono venuta per l’affetto” e si lancerà in una scena di sesso alquanto audace, in piedi, con Accorsi nudo che la prende da dietro, mentre troneggia dietro ai vetri dell’attico la Torre Velasca nella notte della Milano da bere.
C’è poi il giovane poliziotto Luca Pastore, il Domenico Diele di Acab, ammalato di Hiv per colpa di una partita di sangue infetto, che cerca vendetta contro il potente Mainaghi lavorando nel gruppo di Di Pietro, interpretato con grande vigore da Antonio Geraci. Entrerà perfino a casa sua, grazie alla figlia un po’ punkabbestia di Mainaghi, Bibi, la Tea Falco scoperta da Bertolucci.
C’è infine un giovane sbandato reduce dalla guerra in Irak, Pietro Bosco, interpretato da Guido Caprino, che non sa esprimere la sua rabbia e troverà nella Lega bossiana dei primi anni la sua identità. Mettiamoci ancora un poliziotto ambiguo, Alessandro Roja, la sorella di Veronica, Elena Radonicich, che fa la giornalista d’assalto, una serie di politici e uomini della Milano del tempo tutti piuttosto riusciti.
Si è evitato, almeno in queste prime puntate, l’effetto Bagaglino con il simil Craxi o il simil De Michelis. C’è un Berlusconi inquadrato solo di piedi, che darà buoni consigli a Accorsi su come non sporcare la tavoletta del cesso, ma il suo repertorio recuperato da Rai Tre è notevolissimo. Va detto che sia Di Pietro che Dell’Utri non sono affatto macchiette, anzi, per non dire del Mario Chiesa di Valerio Binasco.
Lo aspettavamo da tempo che si potesse parlare con proprietà del 1992 e di quello che significò per il nostro paese. Non era facile per un paese e per un cinema che non hanno mai saputo spiegarci gli anni di piombo e le storie delle Brigate Rosse. Ci volevano dei ragazzi, tutti quarantenni, che non hanno vissuto quegli anni, per avere forse un giusto distacco, o che sapessero ricostruire un periodo con la logica delle serie americane. Nessuno è un vero e proprio buono.
E nessuno è un vero e proprio cattivo. Le metafore servono per rilanciare un finale di puntata o per chiarire certe costruzioni narrative. Quello che osservo è che non c’è un intellettuale tra questi personaggi. Magari erano poco interessanti o troppo occupati a preoccuparsi di un futuro che, appunto, non era ancora stato scritto, ma che nessuno, allora, si sarebbe immaginato così devastante per tutti.
Ma è curioso che non si veda un giornalista, uno scrittore, un autore televisivo impegnato, un autore di cinema, che in un film simil-morettiano sarebbe stato straprotagonista, tra i principali personaggi della fiction. In qualche modo, uno degli aspetti più interessanti e innovativi di 1992, è proprio la scelta di parlare della realtà lontano dal genere usurato del film d’autore italiano, o della chiave paleo televisiva alla Rulli&Petraglia, o fuori dalle metafore bellocchiane.
L’idea di usare il modello delle serie americane HBO come genere ci svecchia di parecchi anni e di molta inutile fuffa ideologica. Resta il fatto, però, che quello che singolarmente abbiamo vissuto, e che ognuno di noi ricorda più o meno come un incubo lungo vent’anni e forse non ancora concluso, è ancora da capire e trascrivere per immagini. Ma, probabilmente, non lo si potrà fare con lo stesso metodo.
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