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Mariarosa Mancuso per "Il Foglio"
"Il film di denuncia ha fatto il suo tempo", dichiara Marco Bellocchio, aggiungendo la raccapricciante annotazione che "il genere ha fatto grande il cinema italiano". Ora che il cinema italiano è un po' più piccolo, prosperano i film ideologici e da dibattito come "Bella addormentata". Non ci fossero le polemiche, o i litigi tra quelli che sono pro e quelli che sono contro a prescindere, il manufatto si potrebbe pacificamente archiviare tra i titoli poco riusciti del regista che debuttò con "I pugni in tasca" nel 1965.
Meglio ancora se la provincia e la regione non avessero avuto da ridire sulle scelte della Film Commission del Friuli. Ci saremmo risparmiati un lancio pubblicitario pari soltanto a quello (gratuito e ossessionante) che ha accompagnato il film di Marco Tullio Giordana sulla bomba di Piazza Fontana e il film di Daniele Vicari sulla scuola Diaz di Genova.
Capita a tutti di sbagliare una sceneggiatura, inzeppandola di scene madri che vorrebbero essere problematiche, e invece al più offrono frasi da mettere tra virgolette nei titoli dei giornali. Capita di moltiplicare i personaggi, su uno sfondo realistico come gli ultimi giorni di Eluana Englaro, nel tentativo di dimostrare che il film a tesi non è tale: "C'è perfino un risveglio, come potete dire che sono schierato, ho messo il raggio di speranza". Sicuro, Maya Sansa si risveglia nel suo lettuccio d'ospedale, dopo che ha cercato di tagliarsi le vene. Si trascina verso la finestra e vorrebbe suicidarsi, salvata dal dottore amorevole che ha avuto un presentimento.
Il raggio di speranza l'abbiamo visto, anche perché da un'ora e mezza stavamo a domandarci che cosa ci facesse Maya Sansa scarmigliata e nichilista accanto a Isabelle Huppert (ex attrice francese ora votata alle cure di una figlia in coma), a Alba Rohrwacher, che prega per Eluana quando non si fa distrarre da un ragazzo carino del campo avverso (galeotto fu un fazzolettino), e a Toni Servillo, deputato in crisi di coscienza.
Pedine nel grande gioco della vita e della morte, appena sagomate come i pezzi degli scacchi, prive di qualsivoglia dettaglio atto a suscitare compassione nello spettatore. Un film riuscito, stante la delicata materia, dovrebbe indurci a spiare con un po' di curiosità le vite e magari le ragioni degli altri. Una sola scena, e un solo personaggio, hanno le qualità che il cinema dovrebbe avere. Roberto Herlitzka, "psichiatra che dà le medicine" - lo abbiamo inteso come una stilettata a Massimo Fagioli, per anni guru del regista - cura i parlamentari in crisi di rappresentanza (propria, non rispetto a chi li ha votati, uguali all'onorevole Slucca inventato da Carlo Fruttero in "Visibilità zero").
Immersi fino al collo in un bagno turco rischiarato da candele, guardano la tv e meditano sulle qualità antidepressive dei talk-show. Chi viene invitato spesso tiene lontane le paturnie e le crisi di identità . La sequenza è bellissima, i drappeggi dei teli sono caravaggeschi, il dialogo per un attimo risplende, lontano dai gattamortismi - di femmine e di maschi - che affliggono il resto del film. Pare di vedere Tony Curtis e Laurence Olivier nella scena censurata di "Spartacus": chiacchierano di ostriche e lumache, con un sottotesto che l'ha fatta diventare di culto nella comunità gay.
Gli attori fan quello che possono. Isabelle Huppert si addormenta e sogna le mani insanguinate di Lady Macbeth. Il figlio, in procinto di entrare all'Accademia d'arte drammatica, prepara per l'esame "Donna de paradiso" di Jacopone da Todi. Ha studiato tanto, ma non riesce a non storpiare il "Crucifige! Crucifige!" in un devastante "Crucifigge!".
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