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Marco Giusti per Dagospia
Cannes. Per fortuna stiamo quasi alla fine. Posso dirvi che a Un Certain Regard ho visto una bellissima opera seconda di una ragazza marocchina, Asmae El Moudir, “The Mother of All Lies”, qualcosa in più di un documentario.
Per raccontare la storia della sua infanzia a Casablanca e spiegare i segreti della sua famiglia, soprattutto legati a un incredibile fatto di sangue che accadde durante il ramadam del 1981 legato alla Rivolta del Pane, che costò la vita a 600 cittadini che protestavano per la strada che vennero rapidamente fatti sparire nelle fosse comuni mentre nessun media riportò l’accaduto, Asmae El Moudir usa delle complesse installazioni artistiche dove il padre ha ricostruito sia i bassi della città, dove la rivolta avvenne, sia con pupazzetti i personaggi della storia che si sta raccontando. Installazioni che hanno fatto parte di una mostra che la stessa regista ha realizzato col padre.
Ma se i pupazzetti e le scenografie ricostruite, come nel bellissimo film di Rithy Panh sui massacri in Cambogia, “Everything Will Be OK”, servono per supplire alla mancanza quasi totale di immagini, filmati o fotografia (ne esista solo una dei morti per strada del 1981), servono anche per allargare i ricordi della famiglia, visto che poi i racconti vengono fuori.
Non di tutti, perché la vecchia nonna Zahra, che tiene in pugno la memoria e l’anima dell’intera famiglia, si ostina a non voler parlare. Anche i muri hanno orecchie. Magari ha ragione.
E’ la stessa Zahra a avere eliminato la presenza di qualsiasi fotografia della famiglia da casa, tranne quella di Assad II, che troneggia su un muro vuoto, anche se Asmae El Moudir ne ha trovata una che dovrebbe corrispondere a quando a 12 anni si fece fare la sua prima fotografia, nello stesso giorno del massacro.
Costruito più come una forte, seduta analitica di massa che cresce mano a mano che le storie più terribili vengono fuori, dà del Marocco una chiave di lettura per noi abbastanza ignota della repressione poliziesca del paese in uno dei suoi momenti più difficili. Per la verità uno dei film migliori che si siano visti quest’anno a Cannes. E scenografie e pupazzetti sono favolosi.
Meno riuscito, anche se più che vedibile, malgrado gli schizzi di sangue e le fin troppe unghie cavate brutalmente, è “Hopeless”, opera prima del coreano Chang Hoon Kim presentato a Un certain Regard, un melodramma noir che può vantare una storia da cinema della Warner degli anni ’40. A Myeong, città dove non sembra facile crescere onesti in certi quartieri, il giovane diciassettenne Yeon-gyu, interpretato da Hong Xa-bin, non trova pace tra un patrigno che lo riempie di botte con la mazza da baseball solo perché è ubriaco (“Ma ora smetto”) e le bande della zona che non lo lasciano lavorare in pace.
Dovendo soldi a brutti tipi del quartiere, lo aiuta un freddo capo di una gang, Chi-geon, interpretato da Song Joong-ki, che lo invita a unirsi a lui in una vita criminale. Ma, come spiega già il titolo, senza speranza, non sarà facile per Yeon-gyu muoversi come giovane della gang, mentre il patrigno è sempre più insopportabile e Chi-geon è schiavo del suo sadico boss. Il maggior interesse del film che vanta giovani star coreane popolari, come il bellissimo Song Joong-ki, che i fan delle serie ricorderanno come protagonista di “Vincenzo”, la serie coreana di mafia girata in Italia, è nei rapporti tra i due ragazzi, vagamente gay come in tanti noir, e tra Yeon-gyu e la sorellastra, Kim Hyoung-seo.
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